Il 16 Marzo è un giorno chiave per gli operatori sociali: è il World Social Work Day e a livello mondiale si riflette, si condividono esperienze professionali, per far conoscere e far progredire il sapere connesso alle pratiche di social work. Ubuntu risuona con la prospettiva del lavoro sociale dell’interconnessione di tutte le persone e dei loro ambienti, compresi i servizi sociali.
Quest’anno la Giornata sociale mondiale mette in evidenza il concetto Ubuntu: I am because we are, “io sono perché noi siamo” è un termine africano, dell’Africa sub-Sahariana, che rimanda a un’etica che si focalizza sulla lealtà e sulle relazioni reciproche delle persone. Questa prospettiva si pone all’antitesi dell’idea del self-made di cui è così impregnata la cultura occidentale perché ci invita a porre attenzione a ciò che ci lega gli uni agli altri in una dimensione comunitaria. “La mia umanità è intrecciata e inestricabilmente legata alla tua” ci ricorda Desmond Tutu, son convita che questa sia una consapevolezza fondamentale per operare nel sociale: riuscire a vedere oltre le fragilità, i disagi, i problemi dei singoli per riconoscere l’altro nella sua dignità di essere umano in relazione con me e, così facendo, riconoscersi come tutti interconnessi. Penso che questo sia uno dei significati connessi alle pratiche tese a rafforzare la solidarietà sociale e la connessione globale a cui gli assistenti sociali e gli altri professionisti che operano nel campo del sociale, sono sempre più chiamati ad operare. La comunità e il contesto in cui essa abita e vive non è più sfondo dell’intervento sociale, ma è strumento principe attraverso cui costruire appartenenze, legami, capacità di risposte ai problemi emergenti sia che riguardino il singolo che la comunità stessa. Basti pensare a quanto è utile costruire reti informali di solidarietà per fronteggiare situazioni a rischio di fragilità genitoriale e ridurre il rischio di pregiudizio per i minori coinvolti.
Gli stessi orientamenti etici delle professioni sociali (es: Codice deontologico delle assistenti sociali) sottolineano il ruolo essenziale di tali operatori per collegare persone, comunità e sistemi. Progettare a più mani: saperi esperti affiancati da saperi esperienziali delle persone che quotidianamente vivono situazioni similari e abitano in quel quartiere/paese/rione significa operare per costruire comunità sostenibili e promuovere una trasformazione sociale inclusiva, in cui le differenze trovano legittimazione in una cornice di appartenenza relazionale ed emotiva. Significa ricomporre conflitti senza negare il dissenso, costruire ponti tra i molteplici punti di vista. Per un professionista far propria la prospettiva Ubuntu, implica l’alzare gli occhi dai propri pregiudizi a favore di un contatto attivo fatto di empatia e ascolto che evidenzi la responsabilità reciproca di quel che si va facendo e realizzando.
Ubuntu è stato reso popolare in tutto il mondo da Nelson Mandela, che in più occasioni descrive Ubuntu come la verità universale, uno stile di vita, un concetto di società aperta a un futuro condiviso, e questo deve aver avuto un significato particolarmente importante se pensiamo che ha vissuto l’apartheid in sud Africa. A me è sempre rimasta impressa una sua considerazione proprio a proposito dell’apartheid che evidenzia uno sguardo inusuale, ma che rende bene l’idea di cosa significa sentirsi connesso all’altro e vedere oltre bianchi sudafricani up-neri sudafricani down. Mandela sottolinea come la segregazione sembrava assicurare una vita privilegiata ai sudafricani bianchi, si essi vivevano separatamente, ma il prezzo dei loro privilegi era molto caro, in termini di libertà. Educati ad avere paura dei “neri”, hanno rinunciato a molti diritti per il privilegio del potere: hanno costruito alti muri intorno alle loro case e si sono rinchiusi in comunità blindate, si sono trovate rinchiusi in una “prigione” che loro stessi avevano creato.
Concludo, facendo mio lo slogan dell’Ordine delle assistenti sociali della Lombardia: Ubuntu come legami che liberano, da “catene” di pregiudizi, paure, idee, dipendenze, che ci impediscono di vedere la bellezza della relazione con l’altro, chiunque esso sia.
Giuseppina Parisi, docente del Master