Non mentirei se dicessi che ho imparato prima a skeitare che a camminare. Il mio fratello maggiore Naoto aveva uno skateboard che gli avevano regalato i nonni. Io non mi sapevo nemmeno reggere in piedi. Ogni volta che mi aggrappavo alla sponda del letto o del divano finivo per fare un bel capitombolo. Ma non quando cercavo di salire sullo skateboard. Il pannolino morbido sbatteva sulla plastica rigida con un leggero “plop”; con le manine afferravo i bordi, qualche spinta scoordinata e…via, veloce come il vento! Tutti intorno a me urlavano: Naoto per la rabbia, mia mamma per la preoccupazione, mio padre per l’orgoglio di vedere uno dei suoi figli, anche se non quello che avrebbe voluto, apprezzare uno dei suoi sport preferiti. A sei anni skeitavo agevolmente ovunque per il paese. I nostri vicini ed i negozianti ci avevano fatto l’abitudine: “Arriva Akiko, veloce come il vento!” dicevano. Non mi sono mai separata dal mio skateboard, nemmeno per andare a scuola. Mi piace pensare che siamo nati insieme io e lui e che non ci separeremo mai. Sarebbe riduttivo dire che è diventato il mio sport. È ben oltre questo, anche se su quelle ruote ho macinato più chilometri di quanti possa farne una buona automobile e mi appresto alla più entusiasmante di tutte le avventure per uno sportivo: le olimpiadi. Non è uno sport. Lo skateboard è l’aria nei capelli, la sensazione di lasciarsi alle spalle tutto ciò che non si vuole vedere, la volontà di andare più forte di tutto e di tutti, la capacità di lasciarsi andare, la paura di perdersi, la certezza di ritrovarsi. Fermarsi solo se necessario. Ripartire con più determinazione. Appoggiare i piedi solo quando si è veramente certi di voler tornare a terra e, la maggior parte delle volte, non esserne comunque troppo convinti. Guardare avanti e mai in basso. Non fare mai caso ai rumori intorno, ma concentrarsi su di sé, sintonizzarsi sul proprio respiro. Veloce come il vento. Fino alla meta. A tredici anni può sembrare che le olimpiadi siano un traguardo irraggiungibile. Eppure sono qui. Sogno di stringere tra le mani quella medaglia: per mio padre, che non ha mai smesso di guardarmi con orgoglio, come quando ero bambina; per mio fratello, che con il suo primo stipendio mi ha regalato uno skateboard nuovo, “adatto ad una ragazza che deve gareggiare alle olimpiadi” mi ha detto; per mia madre, che non ha mai mandato giù che non fossi brava a scuola come mio fratello. Non gliene faccio una colpa. Sono in molti a pensare che lo sport sia qualcosa che le donne non possono fare seriamente. Figuriamoci poi gli sport che solitamente sono riservati ai maschi. Pensa che sia un bel passatempo, ma che non possa diventare il mio lavoro. Pensa che sia brava. Ma che non potrei mai essere la più brava. E, in ogni caso, preferirebbe di gran lunga che fossi la più brava della mia classe piuttosto che la più brava a skeitare. Non gliene faccio una colpa. È cresciuta piena di pregiudizi, gli stessi che annebbiano la mente della maggior parte delle persone. Anche di quelle che sanno che sono la più veloce, che nessuno può battermi. Perché io sullo skate vado davvero veloce, veloce come il vento. Vorrei vincere per me. Per me stessa. Perché non è uno sport. È sacrificio, attesa, allenamento, tenacia. Ho creduto in me quando nessuno era disposto a farlo. Tutti pensano la stessa cosa: è divertente andare sullo skateboard. Certo. Ma ogni centimetro guadagnato, ogni record battuto, ogni scatto del cronometro è segnato dal sudore, dalla volontà di non mollare; salgo sullo skate e per ogni lunghissimo minuto ascolto il mio respiro che accelera ad ogni curva: “Ce la fai, prendi velocità, mantieni l’equilibrio, rallenta, adesso riprendi, attenta alla discesa, adesso lo skate si stacca leggermente dai piedi, devo essere svelta a riprenderlo, ecco… adesso ce l’ho fatta… via veloce allora… veloce come il vento”. Qualche volta cado. Una volta ho rischiato anche di farmi male seriamente. È il prezzo da pagare. Si cade e ci si rialza. Come nella vita. Solo che quando cado dallo skate, invece di trovare mani tese il più delle volte trovo risa di scherno, come se quella caduta, nonostante le medaglie vinte, significhi che è proprio vero che non ce la posso fare. Invece io mi rialzo. Come quando ero bambina. Con lo stesso spirito. So che posso cadere, ma non posso fare a meno di quel vento nei capelli, del battito cardiaco che accelera, del rumore dei miei pensieri quando restano soli con me. Con quello stesso spirito salirò in pista alle olimpiadi. Come quando cadevo ed immediatamente mi rialzavo e salivo di nuovo sulla mia tavola a ruote. Con la fiducia di farcela, che non sarei più caduta. Non cadrò. Devo solo andare veloce. Veloce come il vento.

Monica Betti, docente del Master