L’idea di educazione ambientale come è venuta ad affermarsi fino a oggi non si può dire essere esente da critiche, non solo nei suoi sviluppi più recenti, ma già a partire dalle prime formulazioni che ne hanno posto le fondamenta. Prendiamo come spunto un’affermazione dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, citata e menzionata come una delle prime definizioni di educazione ambientale:
l’educazione sui problemi ambientali […] è essenziale per ampliare la base di un’opinione informativa e per inculcare negli individui, nelle società e nelle collettività il senso di responsabilità per la protezione e il miglioramento dell’ambiente nella sua piena dimensione umana. È altresì essenziale che i mezzi di comunicazione di massa evitino di contribuire al deterioramento dell’ambiente. Al contrario, essi devono diffondere informazioni educative sulla necessità di proteggere e migliorare l’ambiente, in modo da mettere in grado l’uomo di evolversi e progredire sotto ogni aspetto. (1)
Qui, come in altri testi (ad esempio, di nuovo, la Carta di Belgrado), pare che tramite tale impostazione l’educazione ambientale faccia propria una particolare declinazione del termine “ambiente”: ambiente è ciò che è altro dall’umano, ciò che sta attorno a tutto ciò che è umano; è il muto panorama da tradurre nelle parole delle nostre lingue; sono le risorse inerti da misurare e centellinare per la nostra sussistenza; sono gli esemplari da classificare e conservare per non perdere gli equilibri che hanno permesso alle nostre società di fiorire e prosperare; sono i fenomeni da tradurre in leggi e formule, in modo da fare previsioni sempre più accurate del nostro futuro; è anche ciò che va migliorato per permettere all’uomo di evolversi e progredire.
Adottando tale accezione del termine ambiente, l’educazione ambientale si avvicina a quello che diversi critici hanno chiamato “ambientalismo riformista”, un approccio che ha trovato largo consenso e ha prevalso nelle proposte elaborate e nelle pratiche intraprese nell’ambito dell’educazione ambientale, sostenendo che per gestire la crisi ambientale in atto si debba fare appello all’elaborazione di nuovi modelli razionali e di nuovi strumenti legislativi, alla riformulazione di certi principi che regolano l’economia, alla necessità di incrementare lo sviluppo tecnico-scientifico in direzione eco-compatibile e di conservare le risorse naturali e le specie viventi. Il problema di questa impostazione “riformista” sarebbe, in primo luogo, la “piena dimensione umana” cui si fa riferimento, ovvero il fatto che si operi una precisa selezione – nei lucidi termini che la scienza ci offre – di ciò che nell’ambiente sarebbe importante salvaguardare per il mantenimento del benessere delle nostre società e del nostro modello di sviluppo, secondo l’assunto che – citiamo ancora una volta la Dichiarazione di Stoccolma – «lo sviluppo economico e sociale è il solo modo per assicurare all’uomo un ambiente di vita e di lavoro favorevole e per creare sulla Terra le condizioni necessarie al miglioramento del tenore di vita» (2).
È proprio in questo contesto, infatti, che si è sviluppato il discorso sullo “sviluppo sostenibile”, una sorta di ossimoro orientato a salvaguardare soprattutto lo sviluppo, più che la sostenibilità; dove continuare a parlare di sviluppo significa rinforzare quella visione delle cose che è alla radice di un sistema politico, sociale, economico e culturale che consuma l’ambiente, lo domina e lo sfrutta. E la stessa politica della conservazione delle risorse – un razionale e prudente sfruttamento delle risorse per ottenere il massimo possibile al minimo costo ambientale – rimane intrappolata in una visione antropocentrica del problema, poiché fa proprio un concetto della natura come “contenitore di risorse” a disposizione dell’uomo, il quale avrebbe nei suoi confronti come unico dovere quello di imparare a gestirle con più oculatezza.
La domanda che emerge spontanea è semplice: ci stiamo facendo le domande giuste? Non potrebbe esserci qualcosa di ancora più profondo e più radicale da mettere in discussione del senso della responsabilità di colui che domina su ciò che viene dominato; di chi è ricco nei confronti di chi è povero; di chi è forte nei confronti di chi è vulnerabile? “Conservare” è davvero il concetto più saggio da portare con noi in un mondo in continua trasformazione? “Sviluppo” è il solo e unico modo in cui possiamo pensare di evolverci insieme alla natura, ovvero nonostante e in contrapposizione alla natura?
L’approccio riformista dell’educazione ambientale fa prevalere la preoccupazione di fornire una corretta informazione ecologica – un’“alfabetizzazione ecologica” – e di promuovere l’acquisizione di elementari comportamenti di rispetto per l’ambiente (risparmiare sulle risorse energetiche, piantare alberi, effettuare una corretta raccolta differenziata dei rifiuti), ma senza impegnarsi in una riconsiderazione dell’idea di natura e di umanità, in un ripensamento dei presupposti della cultura che domina il nostro tempo e nel superamento di quell’immagine propria della cultura occidentale che rappresenta l’uomo come essere isolato e fondamentalmente separato ed estraneo dal resto della natura, superiore a essa e destinato a esercitarne il controllo. Non sembra mai essere in dubbio la vecchia, determinata, tenace separazione di cultura e natura, di pensiero e materia – e se i cambiamenti climatici ci impongono di ripensare noi stessi come fortemente determinati dalla natura a cambiare, la via che scegliamo è quella di una combinazione di scienza-tecnica-economia che vuole resistere monolitica contro la ricca dinamicità e la fluida molteplicità delle direzioni che ogni singolo ente e fenomeno nella natura trova per mantenere i propri equilibri.
Ancora, così come la materia-natura non sarebbe altro che un grande laboratorio in cui apprendere, sfruttare, amministrare e ottimizzare, per tutta una contro-cultura critica verso questo approccio all’ambiente è già evidente il permanere di una base forte di dominanza se guardiamo al rapporto che instauriamo con il vivente a noi più prossimo: gli animali non-umani (3). L’educazione ambientale è anche in questo caso orientata in direzione antropocentrica e incentrata su quello che è definito un pluralismo “di una sola specie”, perché preserva la superiorità umana estendendo in toto le proprie narrazioni e i propri apparati concettuali sulle altre specie, perdendone l’autentica specificità di Altro-da-noi. Nei programmi più diffusi, infatti, si parla di natura, di ambiente, di ecosistemi, di fauna selvatica, di (alcune) specie in via di estinzione, ma non si prende in considerazione tutta un’altra parte della fitta trama di relazioni e di intrecci che ci lega agli altri animali (dal punto di vista sociale e culturale, economico e sanitario, politico ed alimentare); come se il valore educativo, ecologico e morale risiedesse sempre nei discorsi sulla conservazione del panda e dell’aquila reale, sulla vita e le abitudini della tartaruga marina o sul destino degli orsi polari, ma mai nelle considerazioni sul peso etico e ambientale dello sfruttamento degli animali nell’industria del cibo o sul benessere degli animali da compagnia o sui diritti degli animali utilizzati nelle sperimentazioni farmaceutiche e cosmetiche.
A fronte di tutto ciò, l’ipotesi fondamentale di chi critica un’educazione che rimane in funzione del dominio umano è che per individuare i presupposti di un’educazione ambientale orientata alla ricerca di una nuova forma di saggezza ecologica – che non si limita a essere “competenza ecologica”, ma che si definisce come un orientamento esistenziale ecologico– sia necessario partire da un ripensamento profondo di alcuni degli schemi di pensiero e dei modelli etico-valoriali in base ai quali costruiamo il nostro rapporto con tutto ciò che è altro dal Sé.
Solamente a partire da tale ripensamento e da una profonda e radicale riconsiderazione del centro dei nostri pensieri, l’educazione ambientale può porsi come compito basilare quello dieducare bambini e ragazzia pensare i propri pensieri (4), ovvero a sorvegliare l’elaborazione e l’utilizzazione dei significati alla base del pensare quotidiano e delle comuni pratiche sociali e ad assumersi la responsabilità di costruire proprie mappe di idee rispetto alla complessità del reale, proprie rappresentazioni e prospettive di interpretazione di sé e della relazione con il mondo.
In conclusione, una importante lezione resta ancora da apprendere dalla natura: non esiste una via unica e infallibile di superamento di una crisi. Gli equilibri naturali funzionano grazie alla molteplicità, alla differenziazione, alla capacità di stabilire complesse relazioni dinamiche tra le sue parti e di modificare continuamente i rapporti di forza. Prevedibilità, stabilità, sviluppo e conservazione, fanno parte solo delle narrazioni che ci siamo creati sul mondo fino ad oggi. Interrogare criticamente queste narrazioni e lasciare lo spazio per altre narrazioni, più comprensive di altri e diversi percorsi relazionali tra esseri umani-natura-animali è la nuova sfida che sarebbe entusiasmante intraprendere. Potrebbe anche capitare di rendersi conto che la medesima matrice culturale del dominio umano sulla natura sia anche alla base delle disuguaglianze e delle vulnerabilità all’interno della specie umana, per cui ripensare il nostro essere con la natura significherebbe ripensare anche i rapporti interni alle nostre società.
- URL: https://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/educazione_ambientale/stoccolma.pdf.
- Ibidem.
- Cfr. Helen Kopnina, Brett Cherniak, Cultivating a Value for Non-Human Interests through the Convergence of Animal Welfare, Animal Rights, and Deep Ecology in Environmental Education, «Education Sciences», 5, 2015, pp. 363-379; Nicklas Lindgren, Johan Ohman, A posthuman approach to human-animal relationships: advocating critical pluralism, «Environmental Education Research», 25:8, 2019, pp. 1200-1215.
- Luigina Mortari, Ecologicamente pensando. Cultura ambientale e processi formativi, Milano, Edizioni Unicopli, 1998, p. 175.