Un giorno verranno a prendermi. Mi caricheranno sui loro camion e mi porteranno chissà dove. Ma non importa. Io non abbandonerò mai la mia terra, la mia casa. Ho lottato per troppo tempo per vivere da donna libera a Kabul per lasciarmi intimorire da uomini senza onore che rivendicano il loro diritto di toglierci la dignità. Accarezzo il mio guantone da cricket e la medaglia che ho vinto nell’ultimo campionato. Forse mi porteranno via anche questa. Cancelleranno i registri dove troveranno scritto il mio nome, perché non sopporteranno che il nome di una donna compaia in un qualsiasi luogo che possa celebrare la sua intelligenza, le sue capacità, la sua determinazione. Un giorno verranno a prendermi e mi costringeranno a coprire quel volto che con tanta fatica ero riuscita a mostrare alle altre persone, alle altre donne, agli altri uomini. Non è il velo che cala sugli occhi a spaventarmi, ciò che mi terrorizza è il velo con il quale vogliono oscurare le nostre anime, e non perché siamo colpevoli, criminali da nascondere. Perché siamo donne. Mi costringeranno ad abbassare lo sguardo in segno di rispetto davanti agli uomini, figli di altre donne come me e, in nome di quel rispetto, mi impediranno di praticare il cricket così come qualsiasi altro sport, di andare in giro senza essere accompagnata, di studiare nelle università più prestigiose, di aspirare a qualsiasi lavoro degno di questo nome, di desiderare di assumere una qualsivoglia carica politica. Cercheranno di convincermi che è la legge e che la legge è sempre giusta. Non ci riusciranno. Allora mi diranno che è la nostra cultura, quella cultura che sostiene le nostre generazioni e i nostri popoli dall’alba dei tempi. Non mi convinceranno. E allora mi ricorderanno che sono solo una donna e che un uomo non può essere disonorato dai miei comportamenti irrispettosi. Non mi convinceranno. E allora mi porteranno via, perché io possa divenire un esempio di cosa accade alle donne che osano vivere in piedi, che non vogliono abbassare lo sguardo di fronte ad alcuna ingiustizia. Un giorno verranno a prendermi e mi rinfacceranno di essere rimasta nella mia casa, quando tutti gli altri se ne sono andati. Mi diranno che non è più casa mia, che appartiene al nuovo governo, che per me troveranno una sistemazione più idonea. Mi diranno di non portare nulla con me, che tutto quello che mi può servire potrà stare in una piccola valigia. E io non obbedirò. Non obbedirò perché nulla di ciò di cui ho davvero bisogno può stare in una valigia. E allora mi porteranno via, perché nessun’altra donna possa trovare il coraggio di ribellarsi. Un giorno verranno a prendermi mentre mi reco in piazza a protestare. Non per i diritti delle donne, ma per i diritti di tutti gli esseri umani. Mi impediranno di dire quello che penso, di dirlo a viso scoperto, perché io non temo le conseguenze dei miei comportamenti. Convinceranno tutti che è scandaloso che una donna si metta contro gli uomini che cercano solo di proteggerla. E loro gli crederanno, crederanno che è giusto che la mia libertà venga oltraggiata, perché penseranno che la mia scelleratezza li metta in pericolo, metta in pericolo la loro virilità, il loro potere. Un giorno verranno a prendermi mentre recito le mie preghiere, perché ormai la mia vita, oltre a me stessa, non appartiene nemmeno più ad Allah; non ci verrà concesso nemmeno di affidarci all’universo, perché non avremo più altro dio se non la casta di uomini che smaniano dalla brama di potere al punto da voler possedere la vita di qualsiasi essere umano incontrino sulla loro strada. Diranno che è proprio la volontà divina quella che vogliono interpretare, ma nessun dio vuole la morte e l’infelicità dei suoi figli. Allora non mi resterà che chiedere che venga realizzato un ultimo desiderio, quello di poter consegnare lo spirito per poter morire in pace. Perché io morirò. Forse non mi uccideranno, ma morirò comunque. Un giorno verranno a prendermi ed io morirò. Morirò abbassando il velo sul mio capo senza poter più guardare negli occhi le persone che amo; morirò bruciando i libri che mi hanno permesso finora di guardare il mondo con il cuore libero dai pregiudizi; morirò sotterrando il mio guantone da cricket, perché a nessuno serve una donna felice di misurarsi con le proprie capacità; morirò inginocchiandomi davanti ad un dio e davanti a uomini che non riconosco; morirò ogni volta che, invece di parlare, dovrò serrare la bocca, perché qualsiasi parola potrebbe portarmi davanti ad un tribunale di esseri umani come me, incapaci di provare pietà persino di fronte ad una donna sola alla quale è stato portato via tutto. Un giorno verranno e mi porteranno via di fronte allo sguardo cieco di un’umanità assente.
Monica Betti, docente del Master
(foto di Alessandro Maria Fucili)