Ideazione: Christopher Kubasik

Produzione: FX

Una persona è seduta ad un tavolino di una tavola calda americana intenta a sorseggiare un caffè lungo e gustarsi una fetta di torta. Una donna, anziana, si avvicina e si siede davanti a lui. Lo guarda a mezz’occhi, forse in imbarazzo. L’uomo, per nulla turbato, appoggia la forchetta che sostituisce col caffè dietro cui osserva la signora. Alcuni minuti e la donna, sempre senza guardarlo dritto negli occhi, gli rivolge la parola: vuole sapere se lui è la persona che esaudisce i desideri. Speranze, paure, scelte, scoperte, possibilità, comunità sono alcune delle stelle che concorrono a formare la costellazione della parola desiderio. The booth at the and con una scenografia eufemisticamente scarna e ripetitiva riesce ad intrigare proprio perché arriva all’essenza di questa parola sfruttando una delle domande più antiche della vita: se potessi esaudire un desiderio cosa sceglieresti?

Ci troviamo davanti ad un incipit fortemente a rischio banalizzazione. La serie in oggetto la affronta facendo una scelta controcorrente, forse dettata anche da ragioni economiche, che premia. Assoluto minimalismo, centralità dei dialoghi, lavoro di camera giocato su primi piani, assenza di effetti speciali. Lo scambio prettamente verbale tra i personaggi porta ad una forte responsabilizzazione dello spettatore e nella sua capacità immaginativa. Una scommessa, anche in questo caso controcorrente, sul piacere di chi segue la serie di avere tutto da costruire nella propria testa e di poter intrecciare le vicende e passioni dei personaggi con la propria storia personale. Depotenzia in questo modo il rischio voyeuristico in cui si sarebbe potuti cadere.

La serie ha una struttura ripetitiva, quasi rituale. Un personaggio entra nella tavola calda e chiede di poter vedere esaudito un proprio desiderio. Il nostro protagonista controlla un’agenda che ha sempre con se e risponde al richiedente proponendogli un’azione che dovrà portare a termine se vorrà vedere esaudita la propria richiesta. A volte i desideri sono apparentemente banali. Come anche le richieste. A volte però qualcuno chiede di poter vedere curata la malattia degenerativa di un nostro caro e gli viene proposto, per ottenere quanto sperato, di rapire un bambino. Altre di inviare una lettera anonima, o semplicemente di prendere un caffè in una tal ora di un tale giorno in un determinato bar. E con la parola speranza iniziamo a costruire la nostra costellazione della parola desiderio. Perchè le persone si avvicinano, a volte si avventano, sul nostro misterioso protagonista alla ricerca di qualcuno che condivida, renda reale, una possibilità che rappresenta un nuovo inizio, una nuova identità. Una speranza, appunto. Come spesso risponde il nostro protagonista nessuno obbliga nessuno a chiedere aiuto. Si tratta sempre di possibilità. Di fare una Scelta. Potrebbero accettare i confini della morte, dell’unicità della nostra vita, del fluire costante del tempo.  

Il tema della possibilità è un’altra delle stelle. In un’epoca in cui siamo eternamente sollecitati al tutto è attorno a noi, tutto è possibile, tutto è fluido, lo scegliere diventa una procrastinazione continua. In The booth at the end tutto è incentrato sulle scelte e sulle conseguenze che queste hanno su di noi e sugli altri. Scopriamo lentamente che ogni storia ed ogni scelta è legata ed influenza quella di un altro questuante. Ed il trovarsi davanti a questa possibilità che ci porta ad un altro elemento: la comunità. Noi o loro? 

Al riguardo consiglio di leggere, o rileggere, il semplice quanto efficace The box di Richard Matheson. Ma, dicevamo, come si declina l’etica della comunità davanti alla possibilità di non affrontare le nostre grandi paure? Ed eccoci a chiudere la costellazione con un’altra parola segnante. Ogni paura è degna di ascolto ed importante in base all’importanza che gli attribuisce il proprietario. E forse, proprio per questo, abbiamo persone che vivranno la propria scelta come opportunità per superare e liberarsi delle conseguenze di una propria paura ed altri useranno la scelta come via di fuga. Nessun giudizio apparente. Solo conseguenze. E domande. Perché il nostro protagonista è quello che fa costantemente. Chiedere e parlare. In cambio non chiede altro che i viandanti raccontino quello che pensano e hanno fatto nel cercare di esaudire il proprio desiderio. Ed il raccontare ha un effetto di scoperta in chi racconta. Il fatto stesso di avere una persona realmente interessata alla loro storia, il doverla dipanare, cercare dei nessi causa effetto e metterli in discussione, vederci nelle domande dell’altro porta a ri-scoprirci. E a riscoprire il senso del desiderio che volevamo vedere esaudito e del vincolo che, in alcuni casi, ci era diventata una catena, un loop narrativo funzionale ad altro. E’ affascinante seguire ogni avventore nella costruzione della personalissima costellazione del proprio desiderio. E voi, se aveste la possibilità di esaudire un desiderio, quale sarebbe? E perché proprio quello? Domande che, inevitabilmente la serie ci porterà a fare. Magari davanti ad una delle meravigliose fette di torta, che compaiono frequentemente, davanti ad un lungo caffè. Un binomio, cibo e chiacchiere, indissolubile.

Buona visione e buone domande. 

Rilanci

Stephen King, Cose preziose,Pickwick

Neil Gaiman-Michael Zulli, L’ultima tentazione, Magic Press