Quando arrivai alla casa verde capii che mia madre era morta. Ormai ci avevo fatto l’abitudine alle case che ci ospitavano quando mia madre non ce la faceva più, quando non riusciva più a stare in piedi e quando stava via tutta la notte e io rimanevo da sola.
In Bulgaria, dove sono cresciuta, quelle case le conoscevo quasi tutte. Ma ogni volta che ci ospitavano mia madre era con me. Rimanevamo un po’, poi mia madre diceva che avrebbe trovato un lavoro, che si sarebbe occupata di me. Allora tornavamo a casa nostra. E poi tutto ricominciava da capo, sempre uguale a se stesso. Ma quando arrivai alla casa verde mia madre non c’era. Mi dissero che sarebbe tornata a prendermi dopo qualche giorno, che dovevo stare tranquilla, ma io sapevo che mia madre non sarebbe più tornata. Non so dire quanto tempo rimasi nella casa verde, perché non facevo altro che guardare fuori dalla finestra e sperare che, ovunque fosse, mia madre venisse a prendermi e mi tenesse con lei. Poi un giorno alla casa verde venne un uomo e, anche se non lo avevo mai visto prima, capii subito due cose: che era mio padre e che il peggio doveva ancora venire. Non sono nata in Bulgaria. Mio padre è italiano e io sono nata in Italia. Ma dell’Italia e di mio padre non ricordo nulla. Della mia casa in Bulgaria e di mia madre, invece, mi ricordo. Che mio padre non mi potesse tenere con sé lo immaginavo: se mi avesse voluta, non avrei di certo passato i primi quattro anni della mia vita senza di lui. Mi riportò con sé in Italia, ma non c’era spazio per me nella sua vita. Così ricominciai ad andare da una casa all’altra, ma in un paese che per me era ogni giorno più straniero e senza la sola persona che io amassi veramente, mia madre. Ogni tanto una di quelle signore che mi ospitavano in casa, prima di riportarmi come un pacchetto all’assistente sociale dicendo che io avevo rovinato la loro famiglia e la loro esistenza, mi diceva che, se volevo, la potevo chiamare mamma. Una volta ci ho provato: una di quelle che mi sembravano più affettuose e più sorridenti l’ho chiamata mamma, ma quella parola uscita dalla mia bocca e rivolta a qualcuno che non aveva quegli occhi, quel profumo che sapeva di fiori d’arancio, aveva il suono di una bugia. E comunque, l’averla chiamata mamma non è servito a convincerla a tenermi con sé. Mi convinsi che ero una bambina impossibile da amare. Mi tornò in mente la casa verde, quella dove avevo capito che mia madre era morta, e sognai di poter tornare lì ad aspettarla per sempre. Mi dissero che in quella scuola mi sarei trovata bene, che c’erano tanti bambini che volevano giocare con me. Era stata la “mamma” numero tre a dirmelo. Lei però i suoi bambini li portava in un’altra sezione e li andava a prendere tutti i giorni dopo pranzo. Io invece dovevo rimanere a scuola tutti i pomeriggi. E mi arrabbiavo, mi arrabbiavo così tanto che strappavo i disegni, mi nascondevo sotto il tavolo, prendevo a calci la porta. Prendevo a calci anche quella maestra che mi abbracciava stretta stretta e mi diceva che avrebbe aspettato che mi passasse la rabbia, che non mi avrebbe mai lasciata. Quella promessa, che era tutto ciò che desideravo, mi faceva allo stesso tempo così male da volere che invece se ne andasse, come tutti gli altri, e che lo facesse in fretta, così da farla finita subito, prima che le volessi bene veramente. Quella maestra voleva che lavorassi e giocassi insieme agli altri bambini. Le altre maestre, nelle altre scuole in cui ero stata, spesso mi facevano uscire, non mi facevano giocare con gli altri. E’ stato quando non parlavo, quando ero nella casa verde. Quella maestra, invece, mi teneva spesso per mano, mi prendeva in braccio, mi aiutava a giocare con gli altri bambini. Perché io facevo fatica a giocare con gli altri. A volte disegnavo delle cose che loro non capivano e mi prendevano in giro. Allora io mi arrabbiavo e strappavo i loro disegni, oppure li scarabocchiavo. Volevo che stessero male come io stavo male. La maestra però non si arrabbiava mai. Mi prendeva sulle ginocchia e mi chiedeva di raccontarle perché mi fossi arrabbiata così tanto. Io non sempre le rispondevo, ma sentivo che avrebbe davvero voluto saperlo. Un giorno le ho fatto un regalo. Le ho fatto un disegno. Lei lo ha guardato e mi ha chiesto. “Questa sei tu?”. E io le ho risposto di sì. “E questa casa?”. E io le ho detto che era la casa verde. Non so perché ho pensato che disegnare la casa verde potesse essere un regalo, però l’ho fatto. E lei mi ha abbracciata così forte che quasi non respiravo. Ci sono luoghi in cui, allo stesso tempo, tutto finisce e tutto comincia. Nina ha ricordato la casa verde tutta la vita. Ci siamo chieste spesso, le sue maestre ed io, come avesse intuito da sola tutto quello che la riguardava senza che nessuno glielo avesse mai detto esplicitamente. Quando Nina arrivò in Italia, nessuno le aveva ancora detto che sua madre era morta di overdose, dopo una delle tante sere tra alcol, droga e solitudine. Eppure Nina lo sapeva perché, quando cominciò a parlare di sua madre, dopo aver disegnato la casa verde alla maestra, ne parlava al passato. Le storie di affido sono difficili. Occorre la capacità di accogliere chi, molto spesso, porta con sé il male del mondo. Nina, dopo il suo arrivo in Italia e l’abbandono da parte del padre, è stata accolta da famiglie affidatarie diverse che non hanno retto il peso della sua sofferenza. Ogni volta doveva ricominciare da capo, nuove relazioni, nuove scuole, nuovi visi, nuove abitudini. Ed ogni novità lasciava dentro di lei i segni di un’amara sconfitta. Perché scegliere la storia di Nina per parlare di inclusione scolastica e non di affido? Perché ci sono storie in cui la scuola può fare la differenza. Essere un’insegnante che accoglie la sofferenza, che accetta i sentimenti di rabbia, paura ed impotenza per costruire ponti con la normalità, con la quotidianità significa essere un’insegnante che pratica l’inclusione. Ci sono storie in cui escludere è la risposta più facile. È facile far uscire dalla sezione o dalla classe un bambino arrabbiato. Più difficile è ricostruire con quel bambino le condizioni che gli possono consentire di rimanere dentro, nonostante la rabbia, nonostante la paura, nonostante le ingiustizie che la vita gli ha riservato. Uscire è sempre la scelta più semplice. Uscendo dalla classe non vediamo fino a dove può arrivare la rabbia, non assistiamo più ad atteggiamenti oppositivi e provocatori. Ma permettendo a quel bambino di uscire, passiamo a lui il messaggio che possiamo stare senza di lui. Esattamente come tutti coloro che, pur avendo la responsabilità ed il dovere di rimanere, hanno scelto di andarsene. Questo è quello che è successo anche a Nina. È stato molto faticoso, ogni volta, ricostruire con lei e con le sue insegnanti le fila delle relazioni che la tenevano legata al contesto della classe. Ma quando Nina ha capito che per le sue insegnanti nessun altro posto era più adatto di quello per crescere insieme e nessun altro tempo sarebbe stato migliore di quello per amarla profondamente così com’era, ha deciso che si poteva ricominciare proprio da dove tutto era finito. Dalla casa verde. A volte dell’inclusione ci sfugge un aspetto fondamentale: che non ci sono un luogo ed un tempo migliori di quelli che già abbiamo. Ci perdiamo nei “se avessimo”, “se ci fossero”, “quando avremo” e non ci accorgiamo che era ieri ed è già domani. Per includere non ci sono luoghi migliori della nostra mente, del nostro cuore, dei nostri occhi, delle nostre parole. Certamente per includere servono anche progetti e risorse, ma quelle verranno dopo. All’inizio è la relazione, la quale non può essere sostituita da nessuno strumento, da nessuna risorsa materiale. Ogni volta che Nina tornava con la mente alla casa verde, riviveva con gli occhi e la mente di una bambina di quattro anni l’atroce consapevolezza della rottura di un legame fondamentale che non sarebbe esistito più. Quando Nina ripensava alla casa verde ripensava ad un letto vuoto, a delle lenzuola fredde, ad un bacio che non avrebbe più ricevuto, ad una ninna nanna che non avrebbe più ascoltato. E non importava se i baci, le carezze, le ninne nanne erano stati spesso interrotti dai tentativi di disintossicarsi e di ricominciare una vita che sembrava non poter essere diversa da quella che era. Quei baci e quelle carezze erano comunque i soli che avesse ricevuto da qualcuno che potesse chiamare mamma senza la sensazione di dire una bugia. Quando a quattro anni si è attraversato tutto questo, non ci devono stupire la rabbia e il dolore. E nemmeno voglio dire che accogliere incondizionatamente sia facile. Ma che possa fare la differenza questo sì. Oggi penso a Nina adulta. La immagino tornare alla casa verde per portare un fiore a sua madre. A volte per ricominciare davvero bisogna trovare la forza di salutare chi ci ha lasciato troppo presto e con troppa sofferenza, ma che ha continuato a condizionare tutta la nostra esistenza. La immagino studiosa e impegnata, come la sua intelligenza e la sua profondità d’animo, che emergevano nonostante la rabbia e il dolore, lasciavano ben sperare. Vivo nella speranza che quella scuola che l’ha accolta nel momento più buio della sua esistenza possa averle restituito un po’ di quell’amore e di quella fiducia in se stessa che la vita le aveva tolto. E, pensando a Nina, continuo a credere in una scuola che possa continuare a fare la differenza, nonostante tutto.