istruzione-educazione-contrastare-poverta-vinicio-zanetti-750x350

Può suonare strano nella nostra società occidentale, che vuole apparire come il ritratto dell’opulenza, parlare di povertà. Eppure essa è la condizione che rappresenta circa il 12% della popolazione italiana, in base ai dati Istat. Più di un italiano su dieci si trova in condizioni di povertà assoluta, ovvero non ha possibilità di accesso ai beni essenziali. La povertà contiene, in sé, molteplici dimensioni e fattori che prenderemo in considerazione in momenti successivi. Il rapporto di Save the children del 2017 ha rilevato che sono più di 26 milioni i bambini a rischio di povertà ed esclusione sociale in Europa e questo dato è in costante peggioramento nell’ultima decade. Un dato davvero allarmante nella nostra civilissima Unione Europea.


Quali sono, in base alle statistiche, i fattori che influiscono sulla povertà minorile? Sempre in base al rapporto di Save the children i fattori maggiormente predittivi di povertà sono: la composizione familiare, in quanto le famiglie più a rischio sembrano essere quelle monoparentali ed i nuclei numerosi; l’intensità lavorativa della famiglia, ovvero le famiglie che lavorano meno risultano maggiormente a rischio; il titolo di studio o la posizione professionale del capofamiglia, che mostrano un rapporto inversamente proporzionale al rischio di povertà; infine, l’origine straniera dei genitori, che sembrerebbe maggiormente correlata al rischio di povertà assoluta, ma anche relativa (una povertà che si riferisce cioè alla mancata possibilità di accesso ai beni riconosciuti importanti a livello sociale e che sono mediamente posseduti dalla popolazione di riferimento in un preciso momento storico). Essi non rappresentano, di per sé, fattori determinanti, eppure risultano in forte correlazione con il fenomeno della povertà che, per lo meno in Italia, sta assumendo proporzioni maggiori rispetto alla media europea. Nell’ immaginario comune l’icona della povertà è spesso associata alla mancanza di beni primari materiali. Ma la complessa evoluzione della società contemporanea sta velocemente virando verso altre forme di povertà, che rischiano di rivelarsi, nel tempo, altrettanto compromettenti per la vita delle generazioni future. Una delle possibili forme collaterali di povertà è proprio la povertà educativa. Quanto conta il successo scolastico nella vita degli studenti di oggi? Molto, anzi, moltissimo. E non solo per un bisogno di affermazione sociale, ma anche e soprattutto per  garantirsi maggiori possibilità di accesso al mondo del lavoro attraverso forme contrattuali regolari ed adeguatamente retribuite. Il che, in un circolo virtuoso, verosimilmente equivale, nel successivo futuro, ad una maggiore probabilità di garantire ai propri figli l’accesso ad adeguati livelli di istruzione e di inserimento professionale. I miei genitori non possiedono un titolo di studio elevato. Entrambi provengono da due paesini molto piccoli, uno della Romagna ai confini con la Toscana e uno del Veneto. Mio padre, dopo non poche traversie e ceri votivi alla Madonna della Suasia accesi da mia nonna, è riuscito a completare l’Avviamento (le scuole medie di chi, negli anni Cinquanta, già sapeva che non avrebbe frequentato le scuole superiori); mia madre, più volenterosa ma proveniente da un nucleo numeroso, aveva conseguito la licenza media prima di trasferirsi, insieme alla sua famiglia, a Ravenna dove, con molti sacrifici, riuscì a frequentare i corsi serali di Ragioneria, potendo così diplomarsi. Sognava di fare la maestra, ma trovò posto in un negozio di alta sartoria e ha finito col fare la commessa per tutta la sua vita lavorativa. Abbiamo sempre vissuto modestamente, in una famiglia allargata della quale, per molti anni, hanno fatto parte anche i miei nonni ormai vecchi ed infermi. Non mi è mai mancato nulla, ma mi accorgevo che non facevamo viaggi, che non andavamo quasi mai a mangiare al ristorante, che nessuno di noi indossava capi firmati. Non ho mai sentito la mancanza di tutto ciò ma, soprattutto da adolescente, i paragoni con le ragazze della mia età erano inevitabili. Semplicemente pensavo che non ce lo potessimo permettere. Solo da adulta ho capito il sacrificio dei miei genitori: per buona parte della loro vita hanno rinunciato al superfluo perché io potessi studiare. Ho frequentato le scuole medie di un quartiere della periferia di Ravenna. Delle due classi terze che terminarono il ciclo nel 1997, io fui l’unica alunna ad andare al Liceo Classico. Oggi fa sorridere il pensiero, ma la mia famiglia fu la più compatita dal quartiere. Ed anche la più apertamente criticata: perché frequentare il liceo era molto costoso, perché “le lettere non mettono il pane in tavola”, perché i miei genitori sarebbero poi stati costretti a farmi frequentare anche l’Università, in un momento in cui il diploma di scuola superiore era ancora un titolo di studio sufficiente a trovare un buon impiego. “E se poi all’Università vuole fare Lettere, come la mettete?” dicevano alcuni vicini, credendo di presagire un’atroce sciagura. I miei genitori mi hanno lasciato libera di scegliere, perché hanno sempre creduto che con studio, costanza e determinazione avrei avuto la vita che desideravo. E che i loro sacrifici sarebbero stati ben riposti. I primi mesi al Liceo furono molto difficili. Erano pochissimi gli alunni provenienti dalle scuole di periferia. La maggior parte dei miei compagni proveniva dalle scuole del centro, alcune delle quali private: avevano già fatto latino fino alla terza declinazione, due lingue straniere e avevano letto buona parte dell’Iliade. Erano i figli di quelle signore che andavano a comprare i vestiti nel negozio in cui lavorava mia madre, che le raccontavano i risultati scolastici strabilianti dei loro eredi, che parlavano di lezioni al conservatorio, di equitazione e dell’insegnante privata madrelingua e poi, con tono pieno di compassione, le dicevano: “E, invece, la sua bambina come va?”. La prima volta che la professoressa di italiano ci fece leggere in classe un brano “semplice, tanto per cominciare a conoscerci un po’”, chiedendoci di evidenziare le parole poco chiare, ne sottolineai talmente tante che credo abbia pensato fossi straniera. Quando chiese chi avesse letto almeno i primi canti dell’Iliade o dell’Odissea, la mia era una delle uniche due mani non alzate. L’altra mano era di un ragazzo di una scuola della periferia a nord della città, che non superò le selezioni del secondo quadrimestre. Non avevo letto Omero, anche se ovviamente ero a conoscenza della sua esistenza. Avevo però letto Stefano Benni, Bianca Pitzorno, J. D. Salinger, Roald Dahl, Ernest Hemingway. Abbastanza per farmi decidere che quello dello scrittore fosse il mestiere più bello del mondo.  Ma, dalla strizzata di naso della professoressa, capii che le mie letture non erano esattamente in linea con il profilo della studente di ginnasio ideale che stava ricercando nelle nuove matricole. A dispetto di tutto ciò, amavo leggere e scrivere. E amavo la letteratura smodatamente. Nei miei pomeriggi di studio forsennato il libro di italiano era il primo sulla pila di libri che attendevano di essere sfogliati. Durante le interrogazioni cercavo sempre di trasmettere quanto ciò che avevo letto mi avesse entusiasmata; in un momento di estasi poetica, scrissi anche un racconto per il giornalino della scuola (in tre puntate, ambientato nella seconda guerra mondiale, una storia d’amore struggente). Al primo colloquio con mio padre, dopo nemmeno un mese dall’inizio della scuola, disse che la scelta di farmi frequentare il Liceo era stata un po’ azzardata, visto che mi trovava abbastanza immatura; quanto al mio racconto, mi disse che dovevo prestare maggiore attenzione ai tempi dei verbi. Ho continuato a leggere, tanto, a scrivere ciò che mi veniva richiesto per studio, e poi per lavoro, ma non ho più scritto per il piacere di scrivere. Almeno fino a quando un’altra professoressa, in età adulta, mi ha detto che il mio amore per la scrittura era un dono sul quale valeva la pena investire, riaccendendo una fiamma che, diversamente, non avrei avuto il coraggio di alimentare. Ma questa è un’altra storia. Quella classe della quarta ginnasio rispecchiava lo spaccato di una società che, in base ad una legge non scritta, aveva il dovere di riprodursi più o meno uguale a se stessa, a volte in maniera parzialmente indipendentemente dalle capacità o dalle aspirazioni individuali: così chi apparteneva ad una classe sociale elevata aveva l’aspettativa che il proprio figlio procedesse a vele spiegate verso un’inevitabile successo scolastico che gli avrebbe consentito l’ingresso in Università prestigiose ed il proseguimento, nella maggior parte dei casi, delle attività familiari; quanto agli altri, pur non negando le loro eventuali competenze,  le loro scelte di studio e professionali risultavano abbastanza ininfluenti. Superai le difficoltà iniziali grazie ad una buona dose di determinazione, che per fortuna non mi è mai mancata, unitamente al costante supporto della mia famiglia, che ha sempre creduto che la mia dedizione sarebbe stata sufficiente a rimuovere qualsiasi ostacolo. Ho conseguito la maturità classica con un’ottima votazione e, nel lungo e complesso cammino che la mia vita professionale mi ha portato a compiere, ho conseguito due lauree e un Master. Credo che i risultati scolastici e professionali della mia vita siano dovuti a quella che l’Invalsi definisce resilienza: non esiste un’immodificabile relazione causa-effetto tra i fattori che identificano una condizione di povertà assoluta o relativa (anche se la mia storia non è in assoluto inquadrabile in alcuna delle due classificazioni) ed il rischio di povertà educativa. Vi sono delle variabili che, intervenendo, possono cambiare radicalmente il corso delle cose: la motivazione degli alunni, la determinazione, il credere, se non nelle proprie capacità, nel fatto che sacrificio e volontà possano, nel tempo, portare frutto; l’investimento che la famiglia è disposta ad effettuare sul percorso educativo dei propri figli e non solo in termini economici. La mia storia mi ha insegnato che è fondamentale che i genitori supportino i loro figli e li aiutino a scoprire i loro talenti, spronandoli a non perdere mai fiducia e speranza nel poter realizzare i propri desideri. Il successo educativo non è solo quello che si realizza laureandosi in Medicina o in Giurisprudenza, è anche quello che permette alla persone di realizzare il percorso professionale e di vita che più le gratifica. La Scuola può avere un qualche ruolo in tutto questo? Certamente, ma avremo modo di affrontare in seguito questo aspetto della questione. Un altro fattore importante è identificabile nell’età dei minori. I primi anni di vita sono cruciali per lo sviluppo del bambino ed il precludergli opportunità educative può incidere negativamente sulla sua crescita innescando una spirale di disagio dalla quale, nel tempo, può essere difficile uscire. La povertà educativa riguarda la possibilità di accesso ad opportunità di apprendimento: per comprendere e quindi per acquisire competenze spendibili nel mondo di oggi; per essere, per rafforzare la propria motivazione; per vivere assieme, con esplicito  riferimento alla socialità ed al bisogno di interazione dell’essere umano; per condurre una vita autonoma e soddisfacente. Come si è potuto rilevare, la povertà educativa comprende una certa complessità nelle sfaccettature che la compongono, al punto da minare non solo le possibilità di successo in determinati ambiti, ma anche il diritto alla soddisfazione ed alla felicità dell’essere umano. Non impiegare ogni mezzo per contrastare la spirale perversa che collega indigenza, status sociale e povertà educativa equivale a pregiudicare non solo lo sviluppo dei minori coinvolti, ma lo sviluppo stesso di un Paese. Ampliare e potenziare l’attività educativa, in ambito scolastico ed extrascolastico, attuare un programma di sostegno economico alle famiglie indigenti, fornire un supporto motivazionale ed in termini di orientamento agli alunni in situazione di svantaggio sociale sono azioni di welfare che qualificano il territorio e che rispettano imprescindibili diritti umani. Sono ancora troppe, in un Paese che si sente già proiettato nell’Europa 2020, che tradotto in termini di prospettive sociali ed economiche significa futuro, le storie che rivelano le ingiustizie, le disuguaglianze, i divari territoriali, le opportunità negate in base ad uno status sociale reale o presunto, che ancora oggi vengono perpetuate nelle nostre società all’avanguardia. Lo diceva G. Orwell, in quello che ci sembra un ormai lontano 1945: gli animali sono tutti uguali ma qualcuno è più uguale. Il mondo ha affrontato guerre, povertà e miserie di ogni specie, a costo della vita di molti uomini e donne giusti, per far sì che fossimo tutti uguali e con gli stessi diritti. In luoghi del pianeta che pensiamo così lontani da non appartenere nemmeno al nostro universo questa guerra si combatte ancora. Non possiamo ritenerci direttamente colpevoli di ogni miseria dell’umanità. E d’altra parte non è il senso di colpa che muove le relazioni umane, bensì la compassione, l’empatia, il naturale senso di responsabilità che si matura per esseri umani che non possiedono niente di diverso da noi. Questi esseri umani hanno, fra gli altri, il diritto umano fondamentale di non vedere loo negate la speranza ed il potere dei sogni.  Monica Betti