È innegabile, quando si parla di cambiamenti climatici i fatti non sono solamente fatti, ma toccano profondamente il nostro attaccamento alla vita, all’integrità dell’ambiente in cui viviamo, alla solidità degli equilibri in cui conduciamo le nostre esistenze. Mentre leggiamo degli aumenti di temperatura delle acque marine, dei metri di acqua persi dai ghiacciai, degli andamenti nelle temperature locali e globali, la preoccupazione per il futuro comune è l’inevitabile risposta, più che il distaccato apprezzamento di cifre e percentuali. Ne sono testimonianza alcuni recenti fenomeni che affliggono la salute psichica in diverse parti del mondo: la Solastalgia, ovvero il senso di perdita del benessere, l’Ecological Grief, ossia il lutto per ogni singolo essere vivente la cui perdita è irreversibile, e l’Eco Anxiety, l’ansia per l’imprevedibilità degli scenari ecologici futuri.  Il primo paradosso che incontriamo è dunque il seguente: da un lato, per pervenire a una risposta collettiva occorre la consapevolezza dei meri fatti, dati oggettivi, incontrovertibili, con l’aria indubitabile della fredda affidabilità scientifica; dall’altro, abbiamo la forte, viscerale sensazione del valore intrinseco della vita di ogni organismo vivente e del radicamento nella profonda memoria evolutiva del senso di essere fatti dalla Terra, di esistere grazie all’armonia dei suoi equilibri e delle sue risorse. Da un lato, in altre parole, abbiamo “meri oggetti”, come i livelli di CO2, le temperature, i venti, le correnti, i raggi UV, il buco nell’ozono, e così via; dall’altro lato, tutti questi “oggetti” sono parte di un tutto, la Terra, che assume i caldi contorni di una madre da proteggere, e ci parlano di un “bene in sé” da tutelare – una terminologia che appartiene alla sfera etica e morale. A quest’ultimo aspetto, sul versante delle implicazioni valoriali degli effetti dei cambiamenti climatici, si aggiunge il cogente senso di trovare una strategia di adattamento adatta a tutte le popolazioni che variamente risentono degli emergenti squilibri – perché vittime di disastri ambientali, migranti climatici o abitanti di zone ove tensioni e conflitti trovano un silenzioso trigger nelle difficoltà createsi per le modificazioni del clima, in primis l’accesso alle risorse.  Quello che vediamo qui delinearsi è uno spazio ibrido in cui vacilla l’antica dicotomia, profondamente radicata nel pensiero occidentale, tra oggettività e soggettività: gli “oggetti” protagonisti del cambiamento degli equilibri sul nostro pianeta non sono più solamente oggetti, ma acquistano le caratteristiche di veri e propri “agenti”, trovandosi a essere accolti nel mondo degli interessi particolari, delle decisioni politiche, delle valutazioni etiche, dell’adattamento del sapere alle esigenze di un determinato periodo storico. È quello che ancora nel 2004 Bruno Latour indicava come l’ambito, destinato a ingrandirsi sempre di più, dei Matters of Concern, come insieme che si fa spazio tra i Matters of Fact e i Matters of Value, da sempre tenuti accuratamente separati (o così sembrava) come appannaggio rispettivamente della Scienza e della Politica. Per Latour, sono matters of concern queste matasse in cui umani e non umani si trovano ingarbugliati in situazioni di elevata complessità e incertezza, dove l’oggettività della scienza detta la legge ma è la politica ad adattare la norma di azione sulle esigenze sociali, rispetto alla quale poi spetta all’individuo applicare il democratico diritto di valutarne la legittimità o meno.  Oggi la riflessione di Latour è più tangibile che mai: se osserviamo ciò che un semplice virus, mera materia biologica, un ammasso di nucleotidi e proteine, ha prodotto sul piano economico, politico, sociale ed educativo in tutto il mondo, vediamo un agente di cambiamento capace di pervadere ogni aspetto della quotidianità di miliardi di persone, vediamo un protagonista di infiniti discorsi e dibattiti che mettono continuamente in gioco e rimescolano gli interessi di molteplici parti, fanno proliferare credenze, diffidenze, teorie, paure, vediamo una forza in grado di ridisegnare scenari politici, di rimarcare disuguaglianze e di creare vulnerabilità. Gli stessi vaccini, oggi, non sono semplicemente una tecnologia per la salute, ma un attore sociale prodotto dall’intreccio di narrazioni in cui sono aggregate e ingarbugliate le voci dei mercati, delle industrie farmaceutiche, degli scienziati, dei politici, dei singoli cittadini – ciascuno con il rispettivo background di interessi, bisogni, preoccupazioni. L’esempio della pandemia, che ci vede ancora tutti profondamente coinvolti, mostra immediatamente quella qualità che Latour attribuisce ai matters of concern di “assembramenti” (gatherings) di idee, teorie, valori, che danno forma alla costruzione sociale di un oggetto di conoscenza che si modifica con il modificarsi delle motivazioni dietro ai discorsi. Il caso, invece, dei cambiamenti climatici richiede uno sforzo maggiore di utilizzare questa lettura critica, questo saper distinguere all’origine le voci che parlano tutte contemporaneamente dei medesimi problemi, per meglio orientarci su qualcosa di ancor più globale ma molto meno universalmente tangibile rispetto all’attuale emergenza Covid. Si tratta anche in questo caso di prendere decisioni, sul piano macroscopico come su quello microscopico, che cercano di fare presa e avere un effetto sulla realtà, ma tale “realtà” non è più l’affidabile “altro”, immobile e modificabile a piacimento, ma è qualcosa che scivola su piani di significato e di interpretazione, trasformandosi con le narrazioni di tutti coloro che sono presi nel groviglio di matters of concern in cui si collocano i cambiamenti climatici.

Nei prossimi articoli vedremo come anche il tentativo di ridisegnare un’educazione attenta alla sostenibilità debba fare i conti con questo insieme implicito di forze che concorre a tracciare le traiettorie di azione.

Lorenzo Cervi, esperto di tutela dell’ambiente, collaboratore del Master