La conclusione del processo di aiuto comporta una delicata fase di separazione tra l’assistente sociale e la persona con la quale si è condiviso un tratto di strada. Una separazione che sarà espressione della qualità della relazione, della fiducia e dell’appartenenza sperimentata nel perseguire un progetto condiviso sia negli obiettivi che nelle reciproche responsabilità. Vi è accordo unanime nel riconoscere che un percorso di accompagnamento verso l’autonomia deve necessariamente passare per una progressiva emancipazione dall’aiuto. Di fatto un empowerment che si raggiunge attraverso momenti che richiedono anche una negoziazione della distanza all’interno della relazione, che vedono il professionista fare un passo indietro quando necessario, per lasciare alla persona maggior spazio di azione e di assunzione di responsabilità in direzione di una maggiore indipendenza e autodeterminazione. Piccole progressive separazioni, raggiunte anche attraverso strappi o fughe in avanti che è necessario significare e che a volte si possono ricucire solo quando si è pronti a riconoscersi cambiati. Due passi avanti e uno indietro, filo conduttore l’ascolto e la disponibilità ad un reciproco riconoscimento. La conclusione del processo di aiuto è tanto desiderata quanto temuta da entrambe le parti: il “professionista persona” e “l’utente persona” condividono un momento di restituzione e bilancio del percorso fatto che non può prescindere da un investimento emotivo anche da parte dell’assistente sociale. Un momento di riconoscimento reciproco, rispetto a limiti e punti di forza, che proprio nell’esperienza di separazione unisce entrambi. Un momento che può arrivare ad essere connotato da un sentimento di gratitudine per ciò che ognuno ha potuto sperimentare e apprendere dall’altro. Occorre tener presente che la separazione, paradossalmente, è forse il momento di maggior rischio di “naufragio nell’altro”: l’abbandono del ruolo e l’assunzione di una posizione “ora io come te” in realtà non avvicina, ma rende invece la chiusura irreversibile, precludendo alla persona la possibilità della scelta di tornare in futuro, quantomeno in quella relazione di aiuto professionale.
Quanto sopra descrive la conclusione del processo di aiuto, conseguente il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Non sempre però è così, a volte l’unico rimando di realtà che il professionista può dare è la necessità di interrompere la relazione di aiuto per mancanza dei presupposti di collaborazione da parte dell’utente. In entrambi i casi, la conclusione del processo di aiuto è funzionale in quanto avviene “al momento opportuno” e guarda in qualche modo anche al futuro: nel caso di raggiungimento degli obiettivi prefissati si apre ad un prosieguo in autonomia, nel caso della chiusura per mancanza di collaborazione si evidenziano le condizioni minime necessarie che, una volta riconosciute ed accettate, possono aprire ad una nuova richiesta di aiuto più competente in futuro.
La conclusione del processo di aiuto si pone come orizzonte che necessita di essere pensato e prefigurato dall’inizio del percorso. Come sappiamo vi sono modelli di intervento[1], come il modello centrato sul contratto, ma non solo, che esplicitano in modo chiaro la previsione di una fine e legano la durata del percorso in riferimento agli obiettivi da raggiungere.
Ma cosa avviene quando la relazione di aiuto subisce una interruzione a causa di un qualsivoglia evento imprevisto o “accidenti” prima di arrivare a conclusione? Oltre ad inevitabili situazioni di malattia, morte, trasferimenti, cambi di lavoro che possono interessare sia il professionista che le persone che ad esso si rivolgono, ci sono purtroppo condizioni strutturali e organizzative che favoriscono il turn over degli operatori[2]. Chi scrive ha incontrato realtà di Comuni nei quali non vi è neanche un assistente sociale a tempo indeterminato assunto, bensì l’intero servizio sociale è esternalizzato ad Enti gestori con personale a tempo determinato. Non solo, nei Comuni molto piccoli, spesso un unico assistente sociale ruota, come unica risorsa, su più Comuni e altrettanto spesso, questa rotazione vede delle riorganizzazioni – a cura dell’Ente gestore e a volte anche su richiesta degli assistenti sociali stessi (per esigenze logistiche, di opportuna separazione dai luoghi di vita, di preferenza per altri incarichi, ecc…) – che comportano lo spostamento repentino degli assistenti sociali su Comuni diversi da quelli precedentemente coperti determinando le condizioni ben descritte nella ricerca di L. Pavani sulla precarietà lavorativa degli assistenti sociali[3]. Condizioni che molte volte non consentono di elaborare e dare un significato a ciò che sta avvenendo. Tutto ciò che avviene può essere utilizzato nel processo di aiuto attraverso la costruzione condivisa di un senso, ma per farlo deve esserci un tempo per la riflessione, così come deve esserci un tempo per un passaggio di consegne e per la costruzione di un ponte, di una “fiducia transitiva” verso chi ci “sostituirà” nel processo di aiuto. Senza questo tempo, sarà difficile trasformare un “accidenti” in una, almeno parziale, opportunità, con il rischio di pregiudicare la propensione ad affidarsi e le future relazioni di fiducia. Il professionista potrà mettere in campo tutte le proprie competenze, energie ed accortezze, ma senza una assunzione di responsabilità da parte delle organizzazioni nel farsi carico delle relazioni di cura contrastando i fattori favorenti il turn over e garantendo il tempo e gli strumenti necessari ad un corretto “passaggio di caso”, appare inevitabile generare esperienze di abbandono e solitudine.
Angela Roselli, assistente sociale specialista, giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Roma
[1] Sanfelici, M. (2017). I modelli del servizio sociale. Dalla teoria all’intervento. Carocci Editore.
[2] La Legge 178 del 20 dicembre 2020, fortemente voluta dalla professione, introduce finanziamenti strutturali per il potenziamento del servizio sociale professionale con il conseguente aumento dei concorsi e delle assunzioni. Solo una minima parte del turn over è però contingente a questo positivo avvio di cambiamento.
[3] Pavani L. (2021). “Costruire relazioni d’aiuto in condizioni di precarietà lavorativa: il caso dell’assistente sociale”. La Rivista di Servizio Sociale, n.1, pp. 20-31. Una sintesi dei risultati della ricerca è reperibile nell’articolo pubblicato su Welforum reperibile su https://www.welforum.it/mi-spiace-da-domani-non-lavorero-piu-qui/