Sono un prete nigeriano. O meglio, sono un povero prete nigeriano. Meglio ancora. Sono un prete nigeriano povero. E chi è ricco in questa zona così arida, dove è difficile recuperare una tanica d’acqua, dove i topi sono un piatto prelibato, dove è un lusso poter mandare a scuola i figli?
Percorro ogni giorno a piedi decine di chilometri. Non per portare la fede, quella qui non manca, ringraziando Dio. Porto il poco che ho e del quale posso fare a meno. Ad ogni angolo una famiglia da aiutare, ad ogni strada donne, uomini e bambini che aspettano anche solo una parola di conforto. Parole. E’ tutto quello che abbiamo. Parole. Parole che possano distogliere ciò che rimane di alcune famiglie dai più biechi propositi, quando la fame diventa feroce e il pianto dei bambini insopportabile. Massimo Carlotto scriveva che il Buenos Aires horror tour era un percorso nell’Argentina della dittatura che non finisce mai. Anche la Nigeria non finisce mai. Non finiscono mai le ingiustizie, la povertà, la solitudine. Comincio il mio viaggio, come ormai ogni giorno. Conosco ogni capanna, ogni casa, ogni porta. Proseguendo a nord la prima abitazione che incontrerò è quella di Peter. Peter ha 14 anni e ha perso il padre e la madre tre anni fa, uno dopo l’altro. Si muore facilmente in Africa. E’ rimasto solo. Gli zii gli hanno portato via quel poco che i genitori gli avevano lasciato. Dovevano occuparsene, ma evidentemente la tentazione di accaparrarsi quel niente che c’era per garantire alle loro famiglie una settimana di pasti regolari è stata più forte. E’ il più grande di cinque fratelli Peter. Non sa come sfamarli, non sa come mandarli a scuola. Così rimangono tutti in casa o quello che ne resta. Ha venduto tutto, persino il letto sul quale dormivano ed hanno steso delle coperte per terra. Vengo qui tutti i giorni o quasi. Vengo a portare loro un po’ del pane della mia colazione e a controllare che Peter non si lasci raggirare dalle bande armate, quelle che pensano di riportare la pace e la prosperità in Nigeria a suon di mitraglia. Per ora ha funzionato. Ma chissà quanto durerà. Quei bambini hanno bisogno di una famiglia, di punti di riferimento. E Peter è giovane e influenzabile. Bisognerebbe trovare una famiglia di appoggio, che li aiuti e se ne prenda cura. Ma chi prenderebbe sotto il proprio tetto cinque bocche da sfamare, senza garanzie né protezione? Andando ancora avanti c’è la casa di Miriam che vive sola con la madre. Il padre è morto subito dopo la sua nascita. La madre da alcuni anni ha scoperto di avere una malattia degenerativa. Era disperata quando gliel’hanno diagnosticata. Ha vissuto tutta la vita per quell’unica figlia. Ha rinunciato a qualsiasi cosa, lavorato fino a consumarsi le ossa. Voleva che Miriam studiasse, che uscisse dalla povertà nella quale era nata. Ora sua madre non può più lavorare. Ma oggi, almeno per loro, ho una bella notizia. Il vescovo della nostra città ha un contatto con sacerdote nigeriano che vive a Roma per motivi di studio. Quel sacerdote conosce una persona, una persona che ha offerto il suo aiuto economico per pagare gli studi ad un ragazzo indigente. Che Dio benedica quell’uomo o quella donna. Se gli europei sapessero quanto costa fare studiare un ragazzo in Nigeria. L’equivalente di due sere in uno dei loro ristoranti. Due cene potrebbero cambiare la vita di questi ragazzi. Una consapevolezza che non maturerà mai. Forse i momenti peggiori sono proprio questi in cui anche noi sacerdoti rischiamo di perdere la speranza. Ma oggi è un giorno di gioia e letizia. Miriam studierà. Troverà un lavoro in una grande città e donerà ai suoi figli la vita che finora non ha potuto godere. Poi ci sarà la casa di Paul, che ha solo diciotto mesi. Il più piccolo capofamiglia nigeriano. I suoi genitori sono morti mentre erano a Messa, uccisi dai terroristi. E’ rimasta solo una nonna molto anziana ad occuparsi di lui. Nessuno dei parenti in vita ha accettato di prendersi cura di un bambino così piccolo. Le spese sono molto alte, non abbiamo cibo, questo bambino ha bisogno di energie per resistere alla vita e alle malattie. Ogni volta che varco la soglia la nonna mi stringe le braccia al collo e piange. Piango anch’io mentre prego Dio di continuare a darmi la forza per continuare a seminare speranza. Ad ogni strada una storia e ogni storia è una parte di cuore che si spezza, è volontà che vacilla, è fede che si aggrappa all’amore di Dio ma anche alla consapevolezza di non potere nulla di fronte a disgrazia e morte certa per migliaia di bambini incolpevoli, di capi-famiglia che non hanno scelto di esserlo, che rischiano di essere depauperati, raggirati. Le bambine vengono reclutate per diventare giovani prostitute. Anche la Nigeria cattolica nasconde miseria morale e depravazione. I bambini, gli adolescenti, spesso si raggruppano in bande che finiscono col vivere di espedienti, rubando e uccidendo senza consapevolezza, senza timore di Dio. Forse un giorno anche io morirò ucciso, proprio mentre svolgo la mia missione. Nessuno rimpiangerà un povero prete nigeriano, o un prete nigeriano povero. Spero solo che il Signore mi accolga tra le sue braccia quando avrò finito di asciugare l’ultima lacrima, quando avrò consolato l’ultima famiglia, quando avrò visto l’ultimo di questi bambini tra le braccia di persone amorevoli. E se non sarà così, spero che mi accolga in gloria mentre sto facendo ciò per cui sono nato: tendere la mano verso il prossimo, verso chi ha più bisogno di protezione e cura, mentre lo guardo con tenerezza, la tenerezza umana di Cristo.