Is there anybody out there?

C’è qualcuno lì fuori?

(Pink Floyd, The Wall, 1979)

Il fenomeno del burnout è al centro dell’attenzione nel dibattito della comunità professionale degli assistenti sociali. Molto se ne è parlato anche grazie al mockumentary “Stop Helping – a scuola di indifferenza”[1] realizzato dal Croas Toscana con la regia di Federico Greco. Il cortometraggio si è rivelato di grande attualità, accompagnando il lancio dell’esperienza attuativa dei Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (LEPS) per la supervisione degli assistenti sociali[2] previsti dal Piano Sociale Nazionale 2021-23 e finanziati anche dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) con una linea di investimento dedicata proprio alla prevenzione del burnout degli operatori sociali[3]. La supervisione è stata, infatti, riconosciuta come fondamentale strumento di rafforzamento dell’identità professionale e di empowerment dell’assistente sociale, elementi indispensabili al contrasto del burnout e alla promozione del benessere organizzativo quale presupposto necessario per poter esercitare al meglio il proprio ruolo di aiuto nei confronti delle persone beneficiarie dei servizi.

È noto come il burnout sia una sindrome da stress lavorativo che insorge a seguito di uno squilibrio tra le richieste professionali e la capacità personale di sostenerle, con conseguente senso di frustrazione, demoralizzazione e basse difese rispetto allo stress lavoro-correlato[4]. Essa da luogo a esaurimento emotivo, depersonalizzazione e riduzione della percezione dell’efficacia personale[5] che si traducono anche in assenteismo, turnover, assenze per malattia e abbandono lavorativo con importanti ricadute sia sulla persona, che sul gruppo di lavoro e sull’organizzazione. È ormai ampiamente riconosciuto che il burnout non va affrontato come problema legato solo a variabili personali ma, soprattutto, a variabili espressione del contesto lavorativo, della qualità delle relazioni e della cultura organizzativa del servizio. 

In supervisione l’attenzione si focalizza sull’analisi delle pratiche professionali – che affronta dal punto di vista metodologico, valoriale, deontologico e relazionale – sull’individuazione dei problemi e delle criticità nell’azione svolta, sulla condivisione delle conoscenze, della pluralità di metodi e di percorsi possibili per la risoluzione dei problemi riscontrati. L’obiettivo è riconquistare il senso e il valore del proprio operato, in considerazione anche delle variabili connesse all’organizzazione e al contesto lavorativo in cui si opera.  Nell’esperienza come supervisora, chi scrive ha potuto riscontrare che il senso di impotenza e di solitudine viene ricondotto all’eccessivo carico di lavoro, ma, soprattutto, al repertorio povero e standardizzato di risposte attivabili nell’ambito di procedure che sembrano lasciare poco spazio alla creatività e alla costruzione di risposte su misura. Le frasi tipiche, declinabili area per area di intervento, sono “tanto gli posso attivare sempre solo quelle stesse quattro cose che ho disponibili…”,non ho collaborazione dalla rete …” , “farei questo, ma i vincoli posti dall’organizzazione non me lo permettono” ma, soprattutto, “la rete non c’è, siamo soli”. Colpisce come gli accenni alla dimensione comunitaria siano pressoché assenti. Anche laddove vi siano progetti attivi, emergono all’orizzonte solo poche, spurie, iniziative programmate. La considerazione è questa: sembra esistere una solitudine ancora più profonda, quando il professionista non riesce più ad avere in mente le risorse altre e le possibilità che possono rappresentare: non solo fatica ad avere presente l’insieme degli attori della rete formale e della rete informale, la società civile, ma fatica ancor più a vedere la comunità nel suo essere semplicemente fatta di persone in relazione. L’assistente sociale sembra sempre più vivere il servizio solo come un luogo dove le persone che hanno un bisogno vengono a bussare per “entrare dentro” e chiedere risposte. Sembra non vedere più “il fuori dal servizio”, il patrimonio di relazioni più informali, le risorse nascoste della comunità fatta di cittadini, anche singoli, che non hanno solo bisogni ma anche risorse, idee, esigenze condivise, proposte. Cittadini che non bussano, ma non per questo non esistono. Cittadini che non solo vorrebbero poter ridare vita a degli spazi comuni, ma che vorrebbero offrire e condividere il loro spazio, il loro tempo, le loro esperienze. La supervisione dovrebbe focalizzarsi anche sulla necessità di recuperare la relazione con quella dimensione comunitaria capillare, che a molti operatori sembra ormai qualcosa di inaccessibile e lontano, oltre il muro. L’istituzione promuove “infrastrutture della partecipazione” che spesso vivono il tempo di un paio di incontri ad un tavolo in occasione della pianificazione e della co-progettazione, tavoli ai quali sono invitati e partecipano comunque attori sufficientemente organizzati e “formalizzati” e che poi vengono incanalati in percorsi poco visibili e accessibili ai cittadini singoli e non organizzati, o non ancora organizzati, le cui iniziative non vengono alla luce o vengono soffocate da vincoli e lungaggini perché semplicemente “non rientrano” in quanto pianificato.

Alle persone che a noi si rivolgono spesso diciamo che il primo passo importante è aprirsi, farsi vedere, saper chiedere aiuto. Allora perché pensare che questo non valga anche per noi? Forse ora siamo noi che dobbiamo per primi renderci visibili e saper chiedere: c’è qualcuno li fuori? Noi siamo qui… aiutateci a vedervi, aiutateci ad uscire dalle nostre stanze!

Angela Roselli, assistente sociale specialista, giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di

Roma


[1] Il cortometraggio è visibile al seguente link, https://www.youtube.com/watch?v=d-1zLTm2I68

[2]https://www.oastoscana.eu/wp-content/uploads/2024/01/abstract-cirss-ufficiale_Stop-HelpingCROAS-Toscana.pdf

[3] PNRR- Next Generation EU – “missione 5 – inclusione e coesione – componente 2 – infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore – sotto componente 1 – servizi sociali, disabilità e marginalità sociale. Investimento 1.1.4 – Rafforzamento dei Servizi Sociali e prevenzione del fenomeno del burnout tra gli operatori sociali.

[4] Carlini, L., Fidenzi, L., Gualtieri, G., Nucci, G., Fagiolini, A., Coluccia, A., & Gabrielli, M. (2016). Analisi e valutazione medico-legale della sindrome da burnout nell’ambito delle helping profession e della tutela INAIL per i casi di malattia e suicidio. Rivista Psichiatrica, 51(3), 87-95.

[5] Maslach, C., & Leiter, M. P. (2023). Il benessere sul lavoro. Come evitare il burnout e valorizzare le relazioni professionali. Firenze: Giunti Psicologia

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