Camilla sfiora il vetro della finestra mentre fuori le appare un mondo che non riconosce più. La cupola della basilica affiora timidamente oltre la coltre di nebbia che ha invaso il paese. Non se la ricorda più l’ultima volta che si era fermata a guardare qualcosa che non fosse se stessa. La finestra della camera dell’ospedale le regala una visuale nuova, una nuova prospettiva del mondo che l’aspetta quando uscirà di lì. Ma la strada è ancora lunga. Proprio nel giardino sottostante una mamma aiuta il suo bambino a scartare un gelato. Un gelato. Camilla cerca di ricordarsene il sapore. Chiude gli occhi. Ma li riapre subito. Il pensiero del cibo è ancora qualcosa con cui deve combattere ogni giorno. Nonostante tutti gli sforzi, è ancora il suo peggior nemico. Improvvisamente le viene in mente un particolare. Il vestito lilla di sua madre. Lo ammirava appeso nell’armadio, monumento ad un’età che non esisteva più, ad un tempo che non esisteva più. Lo aveva provato di nascosto. Nessuno sapeva perché sua madre non voleva che si toccasse quel vestito. Ma quel tessuto di un colore intenso sapeva di giorni felici e di bellezza e lei non aveva resistito. Era bastato un attimo. Nel tirare su la cerniera la stoffa esile si era lacerata all’altezza del fianco. Si tappa le orecchie Camilla. Ancora le rimbombavano in testa le parole aspre di sua madre. Era troppo piccola per mettere quel vestito. Era troppo bassa per mettere quel vestito. Era troppo grassa per mettere quel vestito. E, soprattutto, non era lei. Ripensò a quel vestito lilla che ora odiava. Ripensò a quanto avesse rappresentato quella perfezione alla quale lei non sarebbe mai giunta. La perfezione di sua madre. Non aveva più visto quel vestito. E non aveva più visto sua madre. O meglio, l’aveva vista ogni giorno, ma non l’aveva più guardata perché da quel giorno non aveva fatto altro che guardare se stessa. Se stessa allo specchio, sulla bilancia, dentro i vestiti di quando era più piccola e quindi più magra. Dal giorno in cui aveva rotto il vestito aveva cominciato, quasi inconsapevolmente, ad evitare i momenti in cui poteva condividere i pasti con sua madre. Non era stato molto difficile. La mattina usciva prima di lei, il pranzo glielo lasciava sempre in frigorifero e la sera… beh, la sera c’era sempre qualche scusa da inventare: ho mangiato troppo a pranzo, preferisco mangiare in camera perché devo studiare, stasera mangio a casa di Francesca… La maggior parte del cibo finiva nella spazzatura. Era diventata anche abile a nasconderlo, perché nessuno se ne accorgesse. Qualche volta però cedeva alla tentazione. Un morso al pane. Una cucchiaiata di pasta fredda. E allora sentiva che le si avvelenava il sangue. Correva sulla bilancia, si contorceva dalla rabbia, piangeva dalla disperazione. Aveva introdotto un rituale tutto suo. Si apparecchiava la tavola. Con cura: piatto, forchetta, coltello, calice. Sul piatto il più delle volte ci finiva un’oliva o una foglia di insalata. La tagliava, come si farebbe con una bistecca, e la mangiava lentamente. Poi sparecchiava, lavava i piatti, li asciugava. Quel rituale le dava sollievo, le faceva sentire che, in qualche modo, si era presa cura di sé. Scompariva dentro i vestiti, ma sua madre non se ne accorgeva. Qualche amica le aveva fatto notare l’improvvisa magrezza di Camilla. Una volta lei aveva risposto: “Non le fa certo male un po’ di dieta”. Un giorno Camilla si era provata il vestito della prima comunione. Lo aveva cucito sua nonna. Le ricordava un momento felice, pieno di tutti quelli che ora non c’erano più. La nonna e anche suo padre. Indossò con calma quel vestito. Mise il bottone nell’asola e lasciò andare. La gonna cadde per terra, non aveva trovato nulla su cui appoggiarsi. Era caduta come una foglia secca. Il vestito della prima comunione era diventato troppo grande per lei. Camilla aveva quindici anni. Scoppiò in un pianto convulso, quello di chi sente di aver perso tutto, persino l’ultimo ricordo felice. L’aveva trovata così sua madre quella sera stessa: disperata, nuda, scheletrita, sola come un gattino abbandonato. Si trovava in quell’ospedale già da diverse settimane. Sua madre veniva tutti i giorni, ma lei non aveva ancora voluto parlarle. Tutti intorno a lei dicono che il tempo l’aveva portata lì ed il tempo, unito alle cure, avrebbe fatto in modo che i tasselli della sua vita tornassero a posto. Questa era diventata la sua speranza. Spesso si sentiva profondamente sola. E vuota. Vuota come quel vuoto nello stomaco che avrebbe voluto riempire ad ogni costo, ma che preferiva invece sentire urlare di fame e di dolore. Esattamente come lei. Camilla guarda oltre il vetro. La nebbia si è dissolta. Immagina che un giorno anche il suo dolore possa dissolversi come quella nebbia e un po’ invidia il sole, che ogni giorno crede nella sua capacità di vincere quel grigiore, per dare un nuovo colore alle cose.