“Papà… non ce la faccio più”. Poche parole, ma mi sono già pentito di averle dette. Non ci può fare niente nemmeno lui. Non ha il potere di dirmi che posso riposare. Una volta ha cercato di lavorare al posto mio, per darmi un po’ di sollievo, ma quel giorno non gli hanno dato la paga. Ho solo dieci anni. E lavorare nelle miniere di carbone in Afghanistan è un lavoro maledettamente sfiancante. Ma sono magro ed agile e a quella gente servo proprio per questo. I Taleban hanno fiutato un affare. Le miniere di carbone rendono moltissimo in questo paese distrutto. Non per noi, questo è certo. Noi non vediamo che la millesima parte e dobbiamo stare attenti a non fare qualcosa che potrebbe portarcela via. Il confine è sottile. Una pausa in più, uno sguardo di troppo, una parola di disapprovazione e quel giorno resti senza paga. E quindi anche senza cibo. E il giorno dopo sei più disperato del giorno prima.
Questa è la nostra vita. Questa è la mia vita. E chissà per quanto tempo lo sarà.
Mi alzo alla mattina, non so esattamente a che ora, ma posso dire che quando mi siedo sul letto ho il sentore di non essermi mai davvero addormentato veramente. Prendo per mano mio padre e andiamo al lavoro. Se solo potessi descrivere il sapore dell’umidità non mangereste per giorni. Entriamo in quegli anfratti bui sapendo già che non ne verremo fuori prima di sera.
Le pause sono controllate. Non puoi fare la pipì da solo, per dire. C’è sempre qualcuno che ci controlla. Perché hanno paura che ce ne andiamo o che scappiamo? No, perché non vedono l’ora di vedere qualcuno di noi che sgarra per poterci punire. Non ci picchiano, questo no. Siamo pur sempre una forza lavoro. Se ci spezzano le gambe, poi chi viene a fare il lavoro sporco? Ci affamano. Ci tolgono l’unica cosa per la quale veniamo invero in questo schifo di posto tutte le mattine. Avere quattro spiccioli per mangiare. La nostra vita è questa. È brutta la fame. L’anno scorso non abbiamo mangiato per tre giorni perché mio padre si era fatto male alla schiena.
Non era ancora guarito quando siamo tornati in miniera, ma non aveva scelta. Non potete capire che cosa voglia dire la fame. Non riesci a pensare ad altro. E improvvisamente tutto diventa commestibile. Un pezzo di carta, un animale morto per strada, qualche sfilaccio di stoffa. Tutto pur di placare quel dolore sordo al basso ventre che ti trapana il cervello.
Non potete capire che cosa sia la fame. E nemmeno il freddo. Quando l’umidità ti penetra nelle ossa, non importa se ci sono 35 o 2 gradi. Il corpo non risponde più ai tuoi comandi. Cerchi di respirare utilizzando ogni altro canale tranne il naso o la bocca. Anche se sai che non è possibile. Allora riduci il respiro, ma non basta. Ridurre il rispiro significa fare più fatica e fare più fatica significa lavorare più lentamente. E lavorare più lentamente significa non mangiare. Non possiamo farci niente.
Ma sono un bambino. E, a volte, non mi posso proprio trattenere. Così chiamo mio padre. Che non mi risponde. Ma so che mi ha sentito e, anche se non può farmelo capire, sente la mia angoscia. Mi chiedo che cosa sia tutto questo per gli adulti. È davvero l’unica via di uscita? È possibile che non ci sia un altro modo per tirare avanti se non questo?
Ripenso a quando ero più piccolo, prima di cominciare a lavorare in miniera. Sognavo di giocare a pallone, di viaggiare, di poter vedere cosa ci fosse oltre il confine del nostro minuscolo paese. Oggi so che non è possibile, che non me andrò mai. Perché la mia famiglia ha bisogno di me e senza il mio lavoro sarebbe costretta a morire di fame. E poi sono proprio i bambini come me che cercano per lavorare in miniera. Perché siamo esili ed agili e riusciamo ad arrivare dove gli adulti non riescono. Gli serviamo, insomma. Ci sono anche bambini più piccoli di me. Siamo tutti indispensabili. E loro lo sanno. Lo sanno che non ce ne andremo mai. Che anche se vorremo essere in qualsiasi altro posto, non abbiamo altra scelta se non affondare in quel nero d’inferno.
Monica Betti