Nel 2016 l’Oxford English Dictionary ha dichiarato Parola dell’Anno il termine Post Truth, in italiano “post-verità”: un fenomeno emergente nell’opinione pubblica per cui i fatti oggettivi hanno un’influenza minore nel modellare le convinzioni generali rispetto a ciò che si rifa alle emozioni o alle credenze personali. Abbiamo già visto come, di fronte a fenomeni che toccano così da vicino il nostro vivere quotidiano di esseri umani e di cittadini, la netta separazione tra fatti oggettivi e valori soggettivi inizi a sembrare posticcia, inconsistente, tradita non solo dall’enorme diffusione di misinformazione e di contro-teorie negazioniste, ma in generale dalla sempre più evidente collaborazione di elementi politici e sociali nella costruzione del sapere scientifico. 

Per quanto riguarda il bisogno di ripensare l’educazione in senso ecologico, il modo in cui si sceglie di trattare verità, fatti e matters of concern rappresenta una sfida con la quale il confronto è inevitabile. Nel tenere insieme, sul piano didattico, tanto i dati, le tecnologie, i saperi, gli oggetti della natura, quanto le scelte, le condotte, i bisogni umani, l’educazione alla sostenibilità tende a declinarsi, nei programmi esistenti, in diverse modalità, come approfondito da Katrien Van Poeck (2017 – Environmental and sustainability education in a post-truth era. An exploration of epistemology and didactics beyond the objectivism-relativism dualism). L’autrice distingue in particolare tre tipi divenuti tradizionali di atteggiamenti pedagogici verso l’educazione alla sostenibilità nelle scuole, ciascuno con il proprio “punto cieco” sulla complessità dei nostri matters of concern che ne limita l’efficacia.

In primis vi è la tradizione centrata sui fatti (fact-based tradition): essa si affida totalmente all’autorità scientifica come unica portavoce della verità su cosa affligge il nostro pianeta (verità intesa come univoca e incontrovertibile perché dedotta dalla materia, dall’oggetto-natura) e fa propria la forma dei dati e dei modelli di ciascun sistema disciplinare per guidare l’insegnamento e l’apprendimento. Compito degli studenti è quello di assimilare il maggior numero di conoscenze e competenze, per poter diventare attori competenti in grado di agire, reagire e intervenire per la sostenibilità. 

Chiaramente, questo approccio che si traduce spesso nell’incontro con gli esperti di vari settori scientifici sensibili, manca di rendere conto degli aspetti morali implicati nel differente accesso alle possibilità di seguire una linea di condotta sostenibile per le diverse popolazioni umane e per tutti i gruppi presenti al loro interno. 

A rispondere a questo aspetto critico dell’approccio fact-based è la seconda tradizione pedagogica, quella normativa (normative tradition), la quale mantiene sì il focus sulla verità inoppugnabile delle conoscenze fornite dagli esperti dei vari ambiti scientifici, ma queste vengono declinate in un discorso più articolato sui valori da promuovere nelle future società orientate alla sostenibilità. L’incontro del dato di fatto “scientifico” con il dato di fatto “politico” all’interno della classe scolastica dovrebbe fornire così agli alunni gli strumenti per divenire consapevoli decisori per il bene comune, in grado di mettere in atto soluzioni universalmente eque perché radicate nella certezza delle proprie fondamenta fattuali. 

Il problema di questa prospettiva è la tendenza ad annullare le diversità demografiche, economiche, sociali e culturali in nome delle verità scientifiche. In altre parole, tale prospettiva suppone che dalla certezza dei meri fatti debba derivare un modello di sviluppo generalizzabile, capace da solo di mettere a tacere le diversità di valori, di ideologie, di priorità, di interessi e di strutture socio-economiche. Inoltre, dietro a questo modello di educazione si potrebbe intravedere una minaccia per la democraticità delle istituzioni scolastiche, consistente nel rischio di far divenire l’istruzione un mezzo politico per dare forma a società con predeterminati valori. 

Terza e ultima tradizione è quella pluralistica (pluralistic tradition), che all’opposto della precedente enfatizza gli aspetti democratici dell’educazione, privilegiando il dibattito, stimolando l’incontro tra differenti punti di vista attraverso la costruzione di argomentazioni e discussioni incentrate sui problemi presenti e futuri del mondo e delle società. L’obiettivo, dunque, è quello di stimolare le capacità di problematizzazione degli studenti e di trovare un terreno comune – per quante più persone possibile – per effettuare scelte efficaci in termini di sostenibilità.

Il rischio sotteso a questa prospettiva è quello del relativismo estremo, del “va bene qualsiasi cosa”, dell’equiparazione di tutti i valori e punti di vista per amore della diversità. 

Ci troviamo di fronte, dunque, a uno scenario complesso in cui l’intento encomiabile di rigenerare i saperi a partire dalla scuola si trova già in partenza a dover operare scelte metodologiche importanti, aventi in gioco gli ampli e complessi intrecci tra questioni non di poco conto quali quelle riguardanti l’equità sociale e ambientale, le identità culturali, il rispetto, la relazione società-natura e le sempre presenti tensioni tra valori intrinseci e strumentali.

Lorenzo Cervi, esperto di tutela dell’ambiente, collaboratore del Master