Qualche volta varrebbe la pena ricordare perché sono nate le leggi o, meglio, per quale ragione, le società, nel costituirsi hanno deciso di dotarsi di norme per regolamentare il vivere comune.
E’ davvero tutto riconducibile alla necessità di sentirsi più al sicuro? O di punire chi ha sbagliato? Ed è questa la ragione per cui sono nate le carceri?
Pare assurdo pensare che ciò che nasceva nel XV secolo è oggi tutto sommato la stessa cosa. A tutt’oggi recludere una persona, privarla delle sue libertà, è l’unico, o quasi, sistema escogitato per dare una risposta che appaia efficace. Purtroppo però, ancora una volta, le verità raccontate coincidono poco con i vissuti d’ogni epoca, l’unico dato quasi sempre invariabile sono le storie delle persone recluse, soggetti che è meglio togliere dalla circolazione, va a finire che guardiamo in faccia tutti i volti della povertà.
Il carcere, infatti, non è sempre esistito o, meglio, non è sempre stata la risposta quasi totalizzante alla sanzione penale; esso nasce in un modo coerente con altre istituzioni, non è altro che l’espressione di rapporti sociali, come ampiamente dimostrava Michel Foucault, che non potevano che trasformarsi in rapporti di forza nel momento di massima affermazione del capitalismo. Dalla rivoluzione industriale che espropria una massa di lavoratori e li trasforma in mendicanti alla legislazione sanguinaria dell’europa seicentesca che persegue il vagabondaggio come oggi andrebbe fatto coi collusi; dai padri della classe operaia di cui parlava Marx, passando per le house of correction e le case di lavoro, le “Rasphuis”[1], dove le ore scorrevano grattuggiando il legno, alla spettacolarizzazione della tortura del reo in pubblica piazza, lì dove la giustizia diventa deterrente, lì dove i corpi iniziano a spezzarsi a colpi di boia.
Letta così potremmo addirittura sentirci evoluti, si dirà che oggi, almeno, si parla di diritti delle persone detenute. Eppure, al di là di tutte le filosofie benpensanti e garantiste, la più grande utilità del carcere è sempre stata la sua natura materialmente divisiva: divide il fuori dal dentro, il ricco dal povero, l’integrato dall’emarginato, i passanti dai vagabondi.
Restituendo al carcere i suoi connotati, ci avviciniamo a comprenderne il tratto reale, la sua funzione sociale di strumento della classe dominante che esercita un potere su di una soccombente.
Ma perchè ci occorre ricordare tutto questo alle porte del Disegno di legge (C. 1660) presentato il 22 gennaio 2024?! C’importa perché nessuna legiferazione è esente dall’esercizio del potere. C’importa perchè soltanto guardando chi rinchiudiamo, abbiamo modo di comprendere a chi giovi l’esercizio di quel potere. E’ per questo che guardare all’utenza delle carceri, può essere utile a comprendere quali strumenti adottare in via preventiva per evitare che la risposta della collettività in materia penale sia tutta sanzionatoria. Ed è sempre per la stessa ragione che queste politiche votate al sociale paiono destinate a soccombere come coloro contro i quali sono pensate alcune norme di segno opposto.
Durante l’iter in Commissione, esame iniziato il 27 febbraio 2024 e concluso il 6 agosto 2024 sono stati discussi alcuni emendamenti e la discussione si accende in Assemblea il 10 settembre 2024, è un fuoco di paglia, si alza la fiamma ma muore in fretta.
E’ curioso come, tra le diverse norme di marca securitaria, si sia pensato anche alla condizione delle donne detenute con figli a carico.
Oggi per le donne incinte e per quelle con figli fino a un anno, in caso di condanna, è previsto un rinvio obbligatorio ovvero un differimento della pena. Queste donne quindi non devono stare in carcere, ma perché? Anzitutto perchè si pone la necessità di bilanciare due diverse esigenze: affermare e garantire il diritto alla genitorialità del minore, tutelato dalla nostra carta costituzionale, e dall’altro, l’esigenza dello Stato di vantare una pretesa punitiva. E’ chiaro che nel contemperare questi interessi, si ritiene che il secondo possa almeno temporaneamente soccombere; coerentemente nel corso degli anni la giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità, è andata affermando la preminenza dell’interesse superiore del minore anche rispetto alle esigenze di sicurezza della collettività (cfr. In tal senso Cass. pen., 1^ sez., sent. n. 16945/2020). In secondo luogo, si porrebbe il problema di recludere degli innocenti, i minori, i quali o vengono privati della propria madre o della propria libertà. Si dirà a questo punto che gli ICAM ovvero gli Istituti a Custodia Attenuata per donne Madri sono pensati anche per i bambini, peccato però che restino pur sempre un carcere dove le pareti colorate non eliminano il grigiore di una cella e il buio di una vita scandita dal rumore delle chiavi segna il confine con il mondo fuori. Il tutto senza contare che la presenza di bambini nelle strutture detentive potrebbe compromettere irrimediabilmente la salute psico fisica degli stessi in un’età decisiva per il loro sviluppo.
Il primo Icam venne introdotto in via sperimentale a Milano nel 2006[2] con l’intenzione di superare le cd. sezioni nido all’interno delle strutture penitenziarie ma il carattere comunque detentivo della struttura in uno alla sostanziale mancata istituzione delle case-famiglia protette, previste dalla l. n. 62/2011, ha portato al ricorso alla reclusione – sebbene presso gli Icam – anche in relazione a casi non caratterizzati da particolare allarme sociale, bensì da marginalità sociale.
E’ vero che l’intento era quello di evitare di separare la mamma condannata per un reato non grave dal suo bambino con una età compresa tra 1 e 6 anni, ma viene dunque da chiedersi: è proprio inevitabile, anche in considerazione di reati dallo scarso allarme sociale, ricorrere comunque alla pena detentiva?
La verità è che in molti casi queste donne con i loro figli non hanno un altro posto in cui scontare la pena in misura alternativa, ad esempio in detenzione domiciliare, perchè anche avere una casa è un lusso; non è un caso, infatti, che la maggioranza delle madri detenute sono di nazionalità straniera.
Parliamo peraltro di numeri esigui: di certo tenere fuori queste donne con i loro bambini non andrebbe a ledere gli interessi di una popolazione di circa 59 milioni di abitanti; infatti, secondo la tabella elaborata dalla Sezione statistica del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 luglio 2024 sono 21 le madri e 24 i bambini negli Istituti di detenzione come pure si legge dal Dossier della Camera pubblicato il 5 settembre 2024.[3] Numeri esigui, certo, ma siamo pur sempre secondi in Europa per presenze di bambini in carcere.
Eppure ancora si sente l’esigenza di intervenire sulla materia, inspiegabilmente, inasprendo una disciplina che, sebbene dai tratti illuminati, è comunque da considerarsi inutilmente gravosa per i minori.
Più nel dettaglio, l’art. 15, che modifica gli articoli 146 e 147 c.p., rende facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore ad un anno, da scontare chiaramente presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. E’ però previsto che l’esecuzione non sia rinviabile ove sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti.
E’ dunque in mano ai Giudici una duplice delicatissima questione: in primis, alla loro esclusiva discrezionalità è affidata la scelta di disporre o meno il differimento della pena per le donne incinte o con prole fino a un anno; in secundis, dovranno valutare con un giudizio prognostico, dunque basato su un criterio di pericolo e non di certezza, se v’è il rischio che quella donna commetta ulteriori reati.
Gli ulteriori interventi (lett. b) del comma 1) riguardano l’art. 147 c.p. E qui c’è da chiedersi pure se è corretto mettere sullo stesso piano lo sviluppo evolutivo di bambini di età compresa tra uno e tre anni dove l’unico aspetto che differenzia il trattamento è il luogo dell’esecuzione della pena: solo per le donne incinte o madri di figli di età inferiore ad 1 anno la pena dovrà obbligatoriamente essere eseguita presso un ICAM, negli altri casi è possibile andare direttamente nelle sezioni ad hoc delle normali carceri.
V’è pure da tener presente che per poter crescere la propria prole, oltretutto in ICAM, queste donne non si sono macchiate di delitti per i quali la pretesa puntitiva è assoltamente indifferibile. Peraltro, non è escluso che le donne recluse siano anche madri di altra prole che non abbia l’età per stare in uno degli Istituti di detenzione (tra cui i 4 ICAM italiani), creando delle disparità tra i diversi figli.
Nonostante tutte le perplessità degli addetti ai lavori, la Camera dice si. Forse si pensa che il rischio sia quello che in Italia ci siano troppe Sofia Loren che vedono nella maternità l’escamotage per continuare a contrabandare evitando il carcere come nello straordinario Film di Vittorio De Sica, Ieri, oggi, domani, del 1963, ma questa volta la domanda è: ci siamo davvero evoluti così tanto se rinchiudiamo pure i bambini, alcuni addirittura prima che nascano?
Marika La Pietra, avvocata, docente del Master Tutela, diritti e protezione dei minori
[1]Le origini delle prigioni di Catia Alexandra Vieira in http://www.ristretti.it/commenti/2008/gennaio/pdf/origine_prigioni.pdf
[2]Gli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri: valutazioni a margine delle recenti proposte di riforma legislativa Francesca Bonassi, Marco Colacurci in https://www.antigone.it/upload/Gli_Istituti_Custodia_Attenuata_per_detenute_Madri.pdf
[3]https://documenti.camera.it/leg19/dossier/Pdf/gi0037a.pdf