Il giorno in cui l’uragano ha distrutto la nostra casa io e mio padre stavamo lavorando in una piantagione di canne. Siamo riusciti a ripararci in qualche modo, anche se mio padre ne è uscito con una gamba rotta. Ma, a casa, erano rimasti mia madre e mio fratello, l’unico figlio maschio. Sono morti entrambi.
“Què pasa mi amor?”, mi chiede mio padre mentre sfioro la spilla di mia madre, la sola cosa che mi è rimasta di lei oltre ad un fazzoletto. “No papá, quería usar esto mañana”. Voglio indossare questa spilla domani, quando sposerò un uomo che nemmeno conosco.
“Ella es solo una niña”. Sono solo una bambina. Ecco che cosa hanno cercato di dire a mio padre. Ma anche i bambini hanno bisogno di mangiare e di un tetto sopra la testa. E noi non ce l’abbiamo più. I figli diventano un problema quando non rimane più nulla. Guardo mio padre. Non gliene faccio una colpa. Sarebbe successo in ogni caso, anche se la mia famiglia esistesse ancora. Mi sarei sposata comunque. Magari con meno fretta, magari con un uomo più giovane che avesse avuto almeno il tempo di corteggiarmi un po’. Ma quando si muore di fame non è il caso di fare gli schizzinosi. Le disgrazie aguzzano l’ingegno. Ed allargano anche il portafogli di chi quelle disgrazie le aspetta per poter intrappolare chi non ha più scelta.
“Quieres verlo?”, mi hanno chiesto. No importa, ho risposto. Che importa vedere il mio sposo prima del matrimonio? Che succederebbe se non mi piacesse? Se mi facesse paura?
Preferisco aspettare ed accarezzare questa spilla, come se questo fosse un giorno felice, come se, dopo la cerimonia, lui mi portasse a casa, a casa mia, da mia madre e mio fratello. Come se potessi vedere mia madre intrecciare le foglie di palma. Come se potessi accarezzare ancora mio fratello mentre dorme.
La stagione degli uragani è sempre più pericolosa e distruttiva. Lo avevano detto a mio padre quel giorno. Ma a che serve ricordarlo? Non siamo stati i soli ad aver perso tutto. Ma, come me, altri bambini sono stati quelli ad aver pagato il prezzo più caro. Forse io sono stata una di quelle più fortunate. Almeno io andrò a stare in una casa e non mi accadrà niente di peggio di quello che mi accadeva già quando la siccità ci impediva di mangiare per giorni. Mi era già capitato di dover trovare il modo di non farci morire di fame. Nel mio paese è più facile se sei femmina e se sei giovane. Poco più che una bambina. Altri di noi sono stati venduti, come le bestie, per lavorare fino allo sfinimento. Manodopera a basso costo. Un vero affare per le grandi imprese. I bambini non si lamentano mai e si accontentano di un cucchiaio di riso in più.
È colpa dell’uragano? Forse. Degli uragani che verranno? Ormai non ci credo più. L’uragano è ciò che si abbatte su di noi quando il resto del nostro mondo è già crollato. Non è l’inizio, ma la fine. Ciò che ci attende dopo è solo ciò che eravamo comunque destinati ad incontrare. La morte non è poi una tragedia. Mi mancano mia madre e mio fratello, ma non penso a loro con tristezza. Non avrei mai sopportato di vedere mio fratello comprato come schiavo. O che mia madre dovesse vendersi, come mi sono venduta io. Perciò è meglio che siano morti. Forse sarebbe stato meglio se fossi morta anche io. Ma così non è stato e adesso non mi resta che indossare questa spilla e andare incontro a ciò che resta della mia vita. Spero solo di non soffrire più la fame. Né che debbano mai soffrirla i miei figli. Presto ciò che è stato della mia vita prima dell’uragano scomparirà. Come è successo alla mia casa e a ciò che mi apparteneva. Siamo attimi. Attimi impercettibili. Respiri profondi. Una quiete apparente. Il silenzio assordante prima del tuono che precede l’uragano.
Monica Betti