La nube di significati che avvolge luoghi, oggetti e strumenti, nelle trame comunicative che connettono corpi, voci e sguardi in sistemi relazionali, con il digitale ha trovato un nuovo ambiente favorevole, impalpabile e globale. In simbiosi con il nostro bisogno di informazioni, ha proliferato, alimentata da quella stessa capillarità della connessione che è andata alimentando, in una sinergia frenetica, che ha progressivamente saturato ogni spazio. Questa ipertrofia del simbolico, che cresce su se stesso, come un tumore benigno e multicolore, è un blob che divora ogni elemento per restituirlo centuplicato. Gli esseri umani sono stati assorbiti in questa “infosfera”, come un’immane, brulicante colonia di processionarie nel loro bozzolo informativo. In realtà, ciascunə può trovarsi più o meno invischiatə nella infosfera, alcun3 di noi vi entrano e ne escono di continuo, mutano il proprio comportamento in relazione alle nuove possibilità che essa offre e scoprono i nuovi limiti di una società che su di essa si organizza, cercano momenti di detox digitale… Ma credo che chi in essa è natə, l’ha respirata dalla nascita, e in essa si è strutturatə, mostri un’organizzazione psichica sensibilmente diversa da quella cui la nostra specie era abituata, “mutante” rispetto a ciò su cui si sono costruite centinaia di anni di teorie del sé. Non servono statistiche per constatare il rapporto che le nuove generazioni hanno con internet e i dispositivi digitali, tanto che si parla correntemente di iperconnessione. È quella che Floridi chiama la “onlife”, una vita in cui c’è una totale continuità tra “reale” e “virtuale” e questi termini non sono più in opposizione tra loro.
Va tenuto conto del fatto che non cambiano solo la densità e la quantità delle informazioni, ma anche e soprattutto la loro qualità: non più testi, ma ipertesti; non più narrazioni lineari, ma ramificate e circolari; non più narrazioni, ma immagini, non più storie ma “meme”. L’informazione è decomposta, molecolare e diffusa, troppo complessa perché la nostra intelligenza le dia un’organizzazione coerente. È come se l’informazione digitale proliferasse rispondendo ad una vita propria, totalmente sovraordinata e sfuggente ai sistemi individuali. Se un tempo l’individuo scambiava perlopiù informazioni già digerite (o quasi), per poi elaborarle in qualche modo, ora il soggetto più spesso percepisce l’incompiutezza dell’elaborazione, sente di partecipare ad un immane processo collettivo, rizomatico. E lo stesso senso di sé, sempre in corso di definizione fuori da sé, risulta parte di questo processo sempre più complesso e sfuggente di cui l’individuo coglie solo frammenti, in modo parziale, temporaneo e precario. Questo produce il bisogno costante di restare conness3 nell’attesa che quel “senso” che ci riguarda si completi, almeno un po’…
Il lato positivo è l’accesso alle informazioni. Il digitale permette uno sguardo sul mondo pressoché divino, l’individuo ha accesso ad una rete di informazioni colossale, ogni pensiero e ogni dubbio possono essere “verificati” in tempo reale, nulla deve essere “ricordato”, perché il cloud è il nostro hardware esterno, che garantisce una memoria e una cultura sconfinate sempre a portata di click …Finché c’è campo e il cellulare prende ovviamente. Siamo diventati come uno sciame capace di condividere le conoscenze di tutti i suoi elementi, un organismo collettivo pressoché onnisciente, ma sempre più in difficoltà a dire “chi è” e a rendere conto della propria complessità.
A tal proposito è interessante il fenomeno della FOMO (Fear Of Missing Out), come viene chiamata l’ansia da disconnessione. Se ne parla come un sintomo di dipendenza, come una cattiva abitudine da estinguere, ma io credo che rispecchi lo spostamento dei processi relazionali dell’identità individuale su questo piano indeterminato e collettivo. “Chi siamo” si definisce sempre e inevitabilmente nella relazione con l3 altr3, nel loro ritorno di informazioni su come ci percepiscono e come ci fanno stare, ma quando l’altrə è uno sciame, le cose si complicano: il soggetto si sente costantemente ridefinitə dal processo in atto a cui partecipa, ma di cui non finalizza mai il feedback, da cui non riceve un’informazione compiuta su di sé, e nel momento in cui si allontana dal processo non perde semplicemente “informazioni” ma l’occasione di “essere”. E a seconda di quanto tale occasione è rilevante rispetto al resto della sua vita, può sentirsi assalitə da un’angoscia di deriva, di dissoluzione. È uno dei temi della dipendenza digitale (le diverse varianti, come gaming, ludopatie, etc., sono altre forme che possono innestarsi su un’esistenza iper-connessa).
Se il processo di produzione del significato di sé dipende dal proprio posto nel mondo, il fatto che questo sia soggetto ad una costante riconfigurazione generale di senso sposterà il baricentro dell’elaborazione identitaria all’esterno dell’individuo. E più questo accade più acquisisce senso anche il fenomeno di oversharing, il bisogno di condividere enormi quantità di dettagli su di sé in una piazza che dovrà discuterne e restituirci il responso di chi siamo e quanto valiamo.
Nello sciame, poi, i legami sono per lo più “deboli”, superficiali, legati alla condivisione di immagini di sé ottimizzate, in una costante dinamica di confronto, in cui la competizione per il successo si conforma precocissimamente alle regole del Personal Branding, confondendo (o facendo coincidere) il successo con l’immagine del successo e il farcela con il darla a bere, l’essere un modello da seguire con l’essere un influencer. Non ho giudizio morale sul valore dell’apparenza, solo che in questo caso esso è un contenitore che assume valore di contenuto, e rende estremamente difficile per l3 giovani capitalizzare un valore di sé stabile. Gli effetti sull’autostima sono devastanti, anche perché le dinamiche di questa diventano strutturalmente competitive: si sente il valore di sé nel momento in cui l3 altr3 esprimono ammirazione, si riesce ad apparire più bell3, più forti, più ricch3 o più intelligenti di qualcun altro… ci si sente dell3 “vincenti” se si appare tali. Diversamente, si vive l’invidia e la depressione. Le regole del gioco incoraggiano a coltivare sacche di livore in attesa di scaricarlo sulla prima stella di turno che mostra il fianco alle critiche. I “leoni da tastiera” sono una nuova figura mitologica del contemporaneo, pronta a possedere le anime fragili nel buio privato delle loro utenze. L’alternativa è una passivizzazione alienante che spinge a vivere non la propria, ma la vita dell’influencer di turno, scrollando tonnellate di video e meme accattivanti, evitando l’angoscia delle domande su di sé.
Eppure, questo mio sguardo normativo (non credo tanto sbagliato, ma di certo giudicante…) riflette soprattutto l’ansia di chi sa di non sapere entrare in quel sistema di funzionamento. Così invece di pensare in termini di quali compiti di sviluppo queste nuove realtà pongono all3 giovani (e all3 meno giovani), ne descriviamo i fallimenti evidenti. In particolare, dopo il covid-19, l’iperconnessione ha mostrato in tutta evidenza il suo potenziale distruttivo, ma in quel frangente ha coinciso con un regime di emergenza e con un cambio di visione del mondo (tendente all’apocalittico direi…). Che ci sia stata un’ondata di sofferenza tra l3 adolescenti non è un’impressione, che si manifesti attraverso le forme di adesione al digitale nemmeno, ma questa non è necessariamente una causa. È come dire che la mela non è un frutto commestibile perché quelle del nostro albero hanno subito una tempesta.
D’altra parte, la tecnologia digitale esiste con il suo portato di complessità, il suo potenziale immane di conoscenze, che in realtà risponde esattamente al bisogno intrinseco nell’intelligenza umana di conoscere e controllare l’ambiente. È la via umana all’evoluzione: non più mutazioni casuali che devono attendere migliaia di anni, ma scienza e tecnologia che ci avvicinano all’immortalità. E nel processo, abbiamo creato un mondo complesso, per vivere nel quale abbiamo bisogno del supporto dell’infosfera. È un diavolo che non può tornare nella bottiglia, quindi dobbiamo guardare alla faccenda in un altro modo.
Potremmo guardare all3 nativ3 digitali come ad una “mente-cyborg”, per prendere in prestito (e semplificare un po’) la metafora con cui Donna Haraway, nella sua proposta femminista post-umanista, supera il binarismo vivente-macchina (dopo quello maschio-femmina e quello umano-animale). Haraway suggerisce un approccio che invece di fermarsi sulle differenze come fonte di categorizzazione si interroghi sulle affinità e le continuità: tra organismi e con la tecnologia. In realtà, non è molto distante da quello che diceva Gregory Bateson sui confini della mente, che non si limitano mai al corpo vivente, ma includono tutti i percorsi lungo i quali si trasmettono le informazioni: come per il cieco con il suo bastone, per cui la mente includerà non solo l’uomo, ma anche il bastone e la strada.
La mente immanente, quella che Bateson chiama “creatura”, è il mondo delle differenze che fanno differenza per qualcuno. Essa include il mondo inanimato finché connessa ad esso esiste la vita, e si complessifica con la capacità della vita di elaborare l’informazione. La mente immanente di Bateson è l’ecologia del vivente, che accoglie il cyborg di Haraway con fluidità. Ma ora che la mente immanente ha anche acquisito milioni di milioni di bit, e sincronizzato miliardi di ciechi con i loro bastoni (per usare la metafora di Bateson), le menti-cyborg degli esseri umani hanno generato un’ecologia dell’informazione di ordine superiore, che risulta indipendente dalle interazioni tra mondo vivente e non vivente. Questa è la quarta rivoluzione di cui parla Floridi: dopo la rivoluzione copernicana che ci ha tolto dal centro dell’universo, e quella darwiniana che ci ha tolto dal centro del vivente, e quella freudiana che ci ha tolto dal centro di noi stess3, questa quarta rivoluzione ci toglie dal centro dell’informazione. Non siamo più noi a gestire le informazioni, ma queste si organizzano in agenti informazionali di terzo ordine, cioè che riguardano le relazioni tra diverse tecnologie senza la mediazione umana, e questa complessità è fuori dal nostro controllo.
Questo è fantascientificamente meraviglioso, ed è la premessa per un futuro di cui non sappiamo immaginare i termini. Ma per chi nasce e cresce connesso all’infosfera, si pone la sfida di mantenere la propria identità individuale, preservando i processi di validazione di sé e una loro relativa autonomia. Perché per quanto a noi sistemici piaccia pensare la mente relazionale nel suo contesto sociale e collettivo, la sofferenza è espressione dell’organismo individuale, anzi è l’espressione specifica della tensione tra individualità e ambiente, e rappresenta un segnale di allarme “cellulare”, un’informazione dall’interno di stress in relazione all’ambiente. Se la mente immanente, in questa fusione dell’onlife tra l’individuo e la tecnologia dell’informazione, si trasforma in una sorta di sciame cyborg, come un organismo collettivo, che vuole essere ben vivace e consapevole (e lontano dai campi di esseri umani coltivati dalle macchine del Matrix delle sorelle Wachowski), allora non possiamo ignorare l’imprescindibilità dell’individuo e del suo processo identitario, di individuazione e soggettivazione: vale a dire di costruzione della propria libertà. Un tempo questo era concepito come un percorso di emancipazione dalla famiglia, oggi dovremmo forse considerare anche un’emancipazione dell’infosfera come un nuovo compito di sviluppo.
Federico Ferrari, psicologo psicoterapeuta, terapeuta di coppia e familiare