“L’annientamento delle giovani generazioni era non solo la garanzia di un futuro  libero da Ebrei, ma rinviava anche alla consapevolezza che la guerra condotta contro l’infanzia non era “un sottoprodotto del conflitto bellico o del genocidio ma la ragione stessa della Shoah”.

È da questa considerazione che lo storico Bruno Maida prende le mosse per raccontare cosa comportò essere bimbi e ragazzi Ebrei sotto il nazifascismo. “Dal 1938 in poi, per cinque anni, noi vivemmo in un tempo senza futuro, un oscuro presente sul quale gravava, confuso e indistinto, l’incubo che ci ghermì dopo l’8 settembre. Un incubo che significò – spiega Maida – abbandonare la propria casa e il mondo conosciuto, nascondersi e nascondere il proprio nome, perdere la vita o le persone amate, assistere alla cancellazione progressiva di tutto ciò che si conosceva come luoghi, oggetti, abitudini”. L’autore si muove per gradi, con continui riferimenti a ciò che accadeva anche nel resto dell’Europa occupata. Ma soprattutto cerca di ricostruire, attraverso le testimonianze, i traumi e gli adattamenti che i bambini dovettero affrontare, tenendo conto delle varie fasce di età, ovvero quanti nacquero in quegli anni e quelli che invece ci arrivarono un po’ più grandicelli, adolescenti. Anche se, quasi inevitabilmente, la prima considerazione riguarda gli adulti, padri e madri, i quali si accorsero di colpo “di non essere più in grado di fornire le sicurezze necessarie; non erano eroi pronti a salvare i propri figli”. I bambini vissero dunque una “brusca caduta di fiducia nel mondo, che si espandeva dalla famiglia a tutte le persone”. E di conseguenza anche alle cose. Così persino “la casa, che rappresentava un luogo di protezione, diventava – spiega Maida – improvvisamente una gabbia, mentre gli spazi pubblici veicolavano messaggi di esclusione o di paura. Andare al parco o ai giardinetti costituiva una fonte di ansia, soprattutto attraverso gli occhi dei genitori, che non trasmettevano più la sicurezza di un luogo libero e permeato dal piacere dell’incontro ma il timore del rifiuto, dell’insulto, di una protezione impossibile, di una sofferenza non condivisibile e assurda”. La stessa scuola statale che aveva significato un passaggio fondamentale nel riconoscimento dell’integrazione, costituisce ora uno dei punti di partenza dell’isolamento. Anche se alcune discriminazioni si verificarono prima, lo storico Maida insiste sull’importanza di partire dalle leggi razziali, perché ciò ricorda in primo luogo che “ad essere perseguitati furono prima i diritti e poi le vite delle persone”, ma anche che “la violenza di quella persecuzione toccò tutti, indipendentemente dall’esperienza del lager”. Guardare tutto ciò attraverso gli occhi dei bambini vuol dire osservare quei fatti da una prospettiva peculiare, indispensabile per comprendere l’essenza di quanto accadde. Guardare con gli occhi dei bambini significa cogliere alcuni aspetti tipici dell’età. A partire dal gioco. In ogni luogo e condizione i bambini ebrei continuarono a giocare. Lo fecero dopo aver perso i loro compagni “ariani” a scuola, quando dovettero abbandonare le proprie case, mentre erano in fuga o isolati in nascondigli improbabili. Lo fecero persino nelle baracche di Auschwitz. “Nascosti nelle campagne – scrive Maida – i bambini inventavano scontri e battaglie interpretando il ruolo dei fascisti e dei partigiani; a Ravensbrück, invece, giocavano alla selezione. La morte, in quel modo, poteva entrare nel loro mondo, perché malgrado tutte le forme di protezione che gli adulti avevano potuto mettere in atto fu spesso una parte inevitabile dell’esperienza vissuta in quei mesi…Mettere in scena la morte in tutti i suoi aspetti, specie nei lager, divenne quindi una forma di razionalizzazione e di difesa tipica dell’infanzia, per adattare la propria condizione psichica all’ambiente”. La capacità dei bambini di rispondere ai cambiamenti traumatici e improvvisi fu direttamente proporzionale a una serie di fattori che interagirono e che i bambini elaborarono in modi diversi. Vissero una loro particolare “resilienza” che non fu tanto la capacità di resistere alle deformazioni del loro mondo, quanto piuttosto la capacità di ripristinare le condizioni della propria umanità, individuando e coltivando uno spazio interiore in cui rifugiarsi. Ma se alcuni sopravvissero, pur perdendo l’innocenza e la spensieratezza tipiche dell’infanzia, fu anche grazie all’aiuto gratuito e coraggioso di altre persone, talora per iniziativa privata, talaltra attraverso reti di soccorso. “Quelle reti – osserva Maida – non solo salvarono dei bambini ma permisero loro, nella maggior parte dei casi, di non sgretolarsi e di adattarsi al trauma e alle circostanze, ai luoghi sconosciuti e ai tempi tanto diversi da quelli della vita precedente. Non fu così per tutti, ma l’impressione è che la maggior parte dei bambini che visse nascosta in Italia ebbe condizioni più positive rispetto ad altri Paesi occupati”. Non fu così per tutti perché, sottolinea ancora lo storico, almeno novecento di essi vennero deportati e il novanta per cento fu ucciso nelle camere a gas. “Dietro a ognuno c’è una storia diversa, che racconta di altri italiani che furono complici convinti o indifferenti dell’occupante tedesco, spettatori passivi dell’arresto e della deportazione: 264 bambini furono arrestati da italiani e altri 23 insieme ai tedeschi. Questi ultimi furono responsabili diretti della cattura di 503”. Di molti di questi piccoli, ai quali fu cancellato il passato e rubato il futuro, conosciamo poco o nulla, di come siano davvero scomparsi, non solo attraverso i camini dei forni crematori, ma anche dalla memoria, in un destino che non è stato diverso da quello dei loro genitori e di altri familiari. Con questo libro lo storico Maida vuole dare un nome e un volto a ciascuno di loro, raccontando soprattutto storie. Storie di bambini spaventati, con la valigia in mano da secoli nel Mediterraneo, in Europa, in Italia. “Le valigie sono rimaste, nella memoria infantile, un segno fisico di quella condizione di sospensione nella quale gli ebrei si trovarono – scrive Maida – ogni volta che sono riuscito a ricostruire perlomeno un’informazione relativa a uno di quei bambini, queste pagine hanno assunto un significato differente”. Chi è sopravvissuto non ha dimenticato. Gli adulti non hanno dimenticato. “Non posso vedere i bambini che vanno in fila in qualche posto – racconta una donna – perché io vedo bambini che vanno al crematorio”. E i bambini di allora non hanno dimenticato. Sia pure con fatica, come i coetanei di altre nazioni, hanno cominciato a raccontare il loro stupore ingenuo dinanzi a un mondo che non potevano comprendere e che non erano pronti ad affrontare.”

Era iniziato il  racconto della Shoah.

Ma come si può   oggi narrare ai nostri bambini la Shoah, renderli partecipi della Giornata della memoria, affrontare temi forti, quali lo sterminio, il razzismo, l’intolleranza, i campi di concentramento? Soprattutto, si può parlare e raccontare la Shoah a bambini anche molto piccoli? ”

“E’ assolutamente necessario – spiegano due insegnanti  della scuola dell’infanzia, Erika Garofano e Valentina Fochetti-  aiutare  bambini anche di 3, 4, 5 anni a conoscere e  a riflettere su cosa c’è intorno alla Shoah, cosa sono il razzismo o l’intolleranza, cosa sono il rispetto dell’altro e la convivenza pacifica, pur mettendoli  al riparo dalla conoscenza dei dettagli più crudi ed impressionanti dell’ Olocausto, argomenti che potranno essere affrontati, dalle scuole primarie in poi, attraverso lo studio di poesie, la visione di film, lo studio dei fatti storici. ”  E, pertanto, proprio in occasione dell Giornata della memoria, hanno realizzato un laboratorio esperienziale partendo dalla lettura del libro “Piccolo giallo e piccolo blu” di Leo Lionni,  tra i più innovativi maestri dell’illustrazione per l’infanzia del secolo scorso, che affronta con estrema delicatezza e forza poetica  il  tema dell’incontro con l’altro, individuandone tutte le sfumature possibili: identità, pluralità, condivisione,  multiculturalità.

Poi, muovendo dal racconto, hanno proposto ai bambini  un laboratorio di pittura e di manipolazione,attraverso il quale è stato possibile per i piccoli sperimentare che l’incontro con l’altro, con chi è diverso da noi, non  toglie qualcosa, ma al contrario arricchisce, ancor di più se l’incontro avviene tra persone-colori lontani.

Ascolta l’intervista alle maestre

Che cos’è la Giornata della memoria per un bambino?

Quale laboratorio nel Giorno della memoria per i bambini della Scuole dell’infanzia?

Guarda il video di “Piccolo blu e piccolo giallo”

e qualche foto….

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lara

 

 

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