Quando sei nata avevo quarant’anni. Negli anni Ottanta, alla mia età, molti dei miei coetanei erano già diventati nonni. Sulla cartella clinica di tua madre, che aveva otto anni meno di me, i medici scrissero “primipara attempata”. Eravamo attempati, per la società eravamo già un po’ vecchiotti per avere un figlio. Guarda che ci vogliono energie per avere un bambino, diceva zia Marinella, la sorella di mia madre, ogni volta che, nei primi nove anni del nostro matrimonio, ci recavamo in visita dai parenti senza uno straccio di maternità o di paternità in vista. Ti abbiamo cercata. Forse un po’ tardi, ma ti abbiamo cercata. E dico cercata non per dire. Desideravamo una bambina. Anche quando tutti ci dicevano che ci voleva un bel maschio. Perché mio fratello aveva avuto un maschio e noi non potevamo essere da meno. Non che se fosse nato un bel bambino lo avremmo amato meno, ma se è vero che sono i figli a scegliere i genitori, da qualche parte nell’Universo tu devi avere sentito che ti stavamo cercando. Hanno sempre pensato tutti che fossi un padre un po’ strano. Ho preso io la paternità facoltativa, al posto della mamma. L’ho fatto io perché la tua mamma aveva un lavoro più incerto del mio e noi avevamo bisogno anche del suo stipendio per poterti garantire un futuro. È stata una necessità, ma anche l’opportunità più bella che la vita mi abbia dato. Ti ho visto cominciare a camminare, ti ho raccontato mille volte quelle favole di principi e principesse che nessuno aveva mai letto a me. Ti ho accompagnata alle prime lezioni di danza, ho lavato e stirato i tuoi vestiti, sono stato ai colloqui con tutti i tuoi insegnanti. Ho sempre detto a tua madre che lo facevo per aiutarla, perché io avevo più tempo di lei, che lavorava in negozio dalla mattina alla sera. Era vero solo a metà. La verità è che adoravo ascoltare come alcuni di quei tuoi insegnanti parlavano di te. E ho compreso la tua sofferenza quando mi è capitato di parlare con quelli che di te non avevano capito proprio nulla. Ma sapevo che sarebbe arrivata anche la tua rivincita e così è stato. Babbo, cosa facevi tu il giorno prima dell’interrogazione di storia? Quante volte mi hai fatto questa domanda. E quanto ridevi nell’ascoltare la mia risposta. Mi inventavo di avere il mal di pancia e a scuola non ci andavo. Ho la terza media, allora si chiamava l’avviamento. Non ero fatto per i libri. Ma tu sì. Ti ho guardato con ammirazione stare giorno e notte su testi dai titoli impronunciabili con una caparbietà che, in certi momenti, ho persino invidiato. Ho finto di non ascoltare i commenti idioti di chi voleva convincermi a non mandarti al liceo, perché le femmine nel nostro rango dovevano portare a casa un diploma e non andare all’università ad ascoltare delle chiacchiere. Non ho mai fatto carriera, anche se avrei potuto. Ho scelto di accudire i miei genitori anziani fino all’ultimo dei loro giorni. Ho cambiato flebo, pannoloni, passato notti insonni sulle sedie scomode di un ospedale. Non rimpiango nulla e, se dovessi rinascere domani, rifarei tutto da capo. Perché ora mi rendo conto che ogni passo che ho compiuto, per quanto difficile e amaro, mi ha portato più vicino prima a tua madre e poi a te. Quando a scuola la maestra ti ha chiesto di scrivere un tema sul papà, io e tua madre abbiamo riso fino alle lacrime: non hai detto una parola sul mio mestiere, o sul mio aspetto fisico; hai descritto invece in maniera splendida e realistica la mia quotidianità fatta di lavatrici e piatti da lavare, di spese fatte insieme in quel supermercato dove tutte le commesse avevano imparato a chiamarci per nome. Alla fine del componimento, la maestra, invece del voto, ha scritto “hai davvero un bravo papà”. Non so se sono stato un bravo papà. Ci sono stati anche momenti difficili. Momenti in cui avrei voluto capirti di più, starti più vicino, e tu invece sembravi tanto lontana. Momenti in cui ho pensato che non volessi permettere a nessuno di conoscere davvero la tua anima. Per poi accorgermi che, invece, tutto ciò che non vedevo era sempre stato davanti ai miei occhi. C’è qualcosa che ci rende davvero simili. Io e te siamo come l’acqua. Fatichiamo a trovare la nostra strada, magari ci mettiamo una vita intera, ma poi riusciamo sempre a trovare uno scopo e a rimetterci in carreggiata. A volte siamo dirompenti, possiamo anche incutere timore, ma sappiamo ritirarci quando tutto intorno a noi sembra aver riacquistato la giusta dimensione. Può sembrare che non ci soffermiamo abbastanza sulle cose, alcuni possono persino pensare che vogliamo sorvolare, andare oltre. Che stiamo fuggendo. E, invece, stiamo scavando.

Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia e docente del Master