Quali possibilità di azione ci troviamo di fronte se decidiamo di accogliere i suggerimenti del Postumanesimo e dell’Ecofemmismo? Come si configura la nuova soggettività agente se teniamo conto della relatività e inconsistenza delle vecchie strutture che ci ancorano come specie e come sistemi di valori e significati al nostro vecchio, logoro antropocentrismo androcentrico? E ancora, come si ridefinisce la nostra relazione con l’ambiente quando smettiamo di operare distinzioni e di svalutare la natura tramite un sapere riduzionistico? Le due prospettive filosofiche che abbiamo trattato indicano la via di un mondo fatto di tanti nuovi soggetti, in cui ciascuno è Sé e ciascuno è Altro, in cui ognuno è e produce i sistemi che occupa tramite complesse relazioni non gerarchiche e non lineari. Il potere di cambiare la forma delle cose e il destino degli eventi non è appannaggio di un unico potere in gioco, ma ognuno è ugualmente strutturato e strutturante ogni nuovo equilibrio. Indubbiamente, non si tratta di liberarsi della nostra lunga storia e degli strumenti razionali ed etici di cui ci siamo avvalsi fino ad oggi; piuttosto, si tratta di andare incontro a infinite ibridazioni complesse con ciò che per noi è sempre stato solo oggetto, solo materia, solo animale, solo natura. Il problema di come a questo punto – assunti nuovi fondamenti teorici – declinare la nuova etica pluralista rimane un importante oggetto della riflessione ecofemminista; e, analogamente alle altre inveterate abitudini epistemologiche, anche sul piano etico il lavoro critico di disvelare gli assunti antropocentrici, androcentrici, logocentrici appare come un passo che è necessario compiere. Con tutte le prospettive filosofiche ambientali, infatti, l’Ecofemminismo condivide l’appello alla ricerca di una nuova etica, ma nello stesso tempo mette in dubbio la capacità delle teorie etiche emergenti di innescare un reale cambiamento morale, perché come tutta la filosofia morale occidentale anche quella ambientale rimarrebbe vincolata a una prospettiva “maschile”, che, presupponendo un concetto di persona individualistico, autonomo e indipendente, concepisce la morale come un atteggiamento di osservanza esteriore e di rispetto formale delle regole, dei diritti e delle norme, come riconoscimento razionale della giustizia come criterio astratto, impersonale, imparziale, in quanto fondato su principi morali universali da applicare in tutti i casi nei quali è necessario decidere razionalmente che cosa è moralmente giusto fare; per cui il transitare verso un differente orientamento etico implicherebbe nient’altro che la messa a punto di nuovi principi. Rispetto a una morale intesa come acquisizione e osservazione di norme aventi un valore universale, come definizione razionale di un punto di vista morale “oggettivo”, come perseguimento di norme astratte e impersonali, l’orientamento etico “femminile” – sulla base di una concezione relazionale della vita – propone un’etica costruita sul principio del prendersi cura, incentrata quindi sulle relazioni interpersonali, sul senso di connessione e di interdipendenza, sull’attenzione all’alterità e sull’enfatizzazione di sentimenti e abilità quali l’empatia, la compassione, l’ascolto, la responsabilità, l’interesse per l’Altro. Ma perché è così rilevante porre l’accento su questa dimensione “femminile” dell’etica? Per meglio chiarire questo punto è opportuno avvalersi non solo del pensiero ecofemminista, ma anche dei recenti sviluppi di altre discipline, quali la biologia, l’etologia e le neuroscienze. Dalle diverse voci di queste e altre scienze, infatti, emerge con forza l’evidenza che l’evoluzione della nostra specie nel nostro ambiente rappresenta solo una minuscola parte dell’immenso disegno qual è la co-evoluzione che lega la nostra storia a quella di batteri e piante, altri animali e clima. Adottando differenti punti di vista possiamo scoprirci come somma delle colonie batteriche che ci abitano, oppure come “riciclatori” dei sistemi fisiologici, chimici, anatomici di specie precedenti e di specie oggi molto distanti. Ancora di più, possiamo vedere le costanti che ci legano agli altri animali dal punto di vista neurologico ormonale e finalmente (liberatici della separazione pensiero/sentimento tipica del pensiero androcentrico) dal punto di vista emozionale. Ed è proprio la relazione quella costante che possiamo rintracciare lungo la storia co-evolutiva delle specie: un bisogno primario che ci riporta filogeneticamente indietro agi esordi della vita, alle prime membrane cellulari e ai primi acidi nucleici, e che si presenta come il linguaggio della natura, immagine della co-dipendenza di tutti gli esseri viventi tra loro e rispetto ai loro ambienti. Se guardiamo ai mammiferi, in particolare, la relazione assume un valore fondamentale per la sopravvivenza: con loro condividiamo molteplici strutture neurali, inclusi i cosiddetti “neuroni specchio” responsabili tra le altre cose dell’empatia, e tutti gli ormoni e le strutture cerebrali che fanno capo ai maggiori sistemi emotivi: il desiderio, la paura, la rabbia, il piacere, l’angoscia, il gioco e la cura. Un ruolo particolarmente importante, in questo senso, è svolto dall’ossitocina, il nonapeptide implicato in molti dei comportamenti affiliativi intra ed extraspecifici e fondamentale nella formazione di quella prima, indispensabile relazione primaria: il legame di attaccamento che ha inizio al momento della nascita tra madre e figlio, quando le maggiori quantità di ossitocina sono secrete e in seguito rinforzate attraverso gli stimoli sensoriali prodotti dalla rinnovata vicinanza nella relazione stessa. È questa relazione originaria di attaccamento, infatti, unica per ogni relazione madre e figlio, che evolutivamente garantisce la sopravvivenza del nuovo nato e lo accompagna per tutta la vita. Dal principio innesca nella madre il piacere della prossimità, del contatto e della cura dell’altro, con il fine insieme di proteggere e di rendere autonomo il piccolo; nel figlio viene in questo modo a prendere forma la cornice sensoriale, comportamentale ed emotiva che plasmerà l’attitudine dell’individuo in ogni relazione successiva con gli intraspecifici, con gli extraspecifici e, naturalmente, con l’ambiente, ritrovando ibridato in ogni altra relazione e nella stessa capacità di formare relazioni quell’originario legame. Rieccoci dunque al punto in cui avevamo lasciato l’Ecofemminismo: la delineazione di un’etica della cura pensata a partire dal suo archetipo, vale a dire la relazione materna. Ciò che caratterizza la disposizione alla cura è incarnato nell’agire della madre, la quale è mossa dal desiderio del bene per l’Altro-da-Sé. Rispetto al concetto tradizionale di eticità, governato dalla logica della necessità, l’etica della cura risponde a una logica affettiva, che ha la sua radice nella recettività, nella relazionalità, nella responsività e in una pienezza di attenzione verso l’Altro. Il principio che anima questo tipo di eticità non è quello di obbedire a delle regole che avrebbero una valenza universale, ma di stare dentro relazioni in cui realizzare se stessi come “soggetti che si prendono cura di”. Proprio prendendo spunto dalla disposizione materna, il prendersi cura assume il significato di aiutare l’Altro a crescere e ad attualizzare pienamente se stesso, a realizzare il proprio poter-essere possibile. Le medesime capacità biologicamente fondamentali di provare empatia, di riconoscere e rispecchiare le emozioni dell’Altro-da-Sé, di mettere in atto comportamenti affiliativi che forniscono il collante sociale e la misura dell’adattamento all’ambiente sono le caratteristiche della relazione materna e la condizione necessaria all’emergere della disposizione ad aver cura. Questo repertorio di capacità empatiche biologicamente ed evolutivamente significative elimina ancora una volta qualsiasi confine netto fra il mondo umano e il mondo naturale, e quindi include nella medesima attenzione morale anche gli altri animali e vegetali, in quanto il ben-essere non è funzione dell’appropriazione e dell’assimilazione dell’Altro-da-Sé in un progetto di dominio, ma innanzitutto è in relazione con una complessa dinamica di memorie, sentimenti e capacità che apre a tutti gli esseri e a tutte le cose nella forma del prendersi cura. L’etica della cura, in questo senso, è un’etica contestualistica (capace di emergere dalle esperienze vissute in circostanze storico-spaziali differenti), pluralistica (capace di rispettare la diversità delle singole voci), in divenire (capace di attribuire grande importanza alla narrazione, in modo che i suoi contenuti possano cambiare col progredire della storia), inclusivista (capace di prestare ascolto a tutte le voci che si oppongono alla logica del dominio), non-oggettiva (capace di riferirsi a problemi radicati in diverse situazioni storiche e socio-economiche concrete) e relazionale (capace di porre al centro del proprio discorso concetti quali la cura, l’amore, l’amicizia e la reciprocità). Essa non prende le mosse da astratti principi etici decontestualizzati, ma propone un paradigma etico, culturale, sociale e politico intrinsecamente dirompente, poiché pone al centro un concetto relazionale del Sé, che porta a concepire l’esistere come uno stare-in-connessione e l’etica come un prendersi cura delle connessioni che ci legano agli Altri e al mondo, determinando chi siamo e quello che facciamo nei termini di amicalità, empatia, interesse per l’altruità e desiderio di prossimità significativa e solidale con l’Altro, con il diverso. Tutte le etiche ambientali elaborate negli ultimi decenni prendono le mosse dall’intenzione di superare la visione strumentale e utilitaristica che legittima lo sfruttamento ecologico, ma non riescono a provocare spostamenti significativi, in quanto restano confinate nel razionalismo proprio dell’Occidente, che non vede quanto poco efficaci siano certe operazioni concettuali – come la proposta di sostituire al concetto del valore estrinseco della natura quello del valore intrinseco, o quanto risulti gravata da un certo astrattismo l’idea di dilatare l’etica dei diritti oltre la sfera umana. All’etica della cura, invece, va riconosciuta la potenzialità di generare uno spostamento reale rispetto all’impianto atomistico e individualistico della cultura occidentale, perché si fonda su una concezione relazionale del bene: un bene che va cercato attraverso la pratica della cura di quel tessuto di relazioni, contatti e prossimità con la terra e con il mondo che nutre il nostro vivere. Chiaramente non bisogna commettere l’errore di concepire l’etica della cura in totale opposizione rispetto all’etica tradizionale, che interpreta il comportamento morale nei termini del rispetto di codici e di norme. Il disporre di leggi ecologicamente orientate, infatti, è essenziale alla realizzazione delle politiche ambientali, ma se queste leggi mancano di alimentarsi di una nuova sensibilità nei confronti del mondo e non hanno radici in sentimenti di compassione e compartecipazione ontologicamente allargati, sono leggi incapaci di incoraggiare quel desiderio che può spingere a costruire una nuova cultura: una cultura che abbia incorporato il senso della dinamicità e della multiformità di un mondo i cui equilibri sono in costante cambiamento; una cultura grazie alla quale sia possibile muovere il proprio agire non sulla base del desiderio che nulla muti, bensì su quello di prendersi cura delle relazioni universali in cui siamo immersi, mentre le cambiamo e ne siamo cambiati.