Nel 1997 mi iscrissi al liceo classico della mia città, una normalissima città del nord est, in cui però erano ancora marcate le differenze sociali e di genere. Oggi l’iscrizione al liceo viene considerata una scelta tutto sommato normale. Ma alla fine degli anni Novanta l’Università appariva ancora come un’opportunità riservata a chi aveva determinate capacità e possibilità economiche.
Nel quartiere dal quale provenivo, la mia decisione di iscrivermi al liceo è stata una scelta contro corrente, soprattutto perché appoggiata dai miei genitori, due normalissimi impiegati con la licenza media. Sono stata l’unica della mia classe delle medie ad iscrivermi al liceo, mentre tutte le mie compagne si iscrivevano alle magistrali, molo più gettonate perché consentivano di accedere al diploma e perché era risaputo che le femmine fossero più adatte a fare le maestre. Siamo cresciuti in mezzo agli stereotipi di genere, essi venivano alimentati anche al liceo, che pure in quel momento mi sembrava la scelta più progressista che potessi fare. I veri progressisti, a dire il vero, sono stati proprio i miei genitori. I quali, nei mesi precedenti e successivi la mia scandalosa iscrizione, non si sono mai scomposti di fronte alla processione dei padri padroni e delle madri accondiscendenti che incessantemente ripetevano: “Se fossi stata mia figlia…”, lasciando in sospeso un finale che stava a metà tra il “non ti avremmo mai permesso di fare quel che ti pare” e il “ti avremmo sicuramente salvata da un destino di insuccesso, rischio di abbandono scolastico senza un diploma e, in ogni caso, disoccupazione”. E per quanta rabbia mi facesse questo accanimento nei confronti di una scelta che in alcun modo dovrebbe essere condizionata o giudicata, devo ammettere che non era poi così lontana dal contesto che il liceo del centro città indirettamente alimentava. Pochi provenivano dalle periferie e la maggior parte di coloro che sedevano nei banchi attorno a me appartenevano a famiglie benestanti, le quali avevano riposto nei loro rampolli tutte le speranze rispetto al prosieguo a vele spiegate delle loro aziende o delle loro professioni dai nomi altisonanti. Per la maggior parte di loro, questo l’ho capito dopo, il liceo non era stata una vera e propria scelta, piuttosto un percorso obbligato che non ammetteva fallimenti, né retrocessioni a percorsi scolastici per alcuni di loro francamente più accessibili, ma socialmente meno prestigiosi. Io, invece, avevo scelto solo per me stessa. E, nei cinque anni che sono seguiti, non è mai stato scontato che quella fosse la scelta giusta per me, né che mi avrebbe potuto portare ad un destino di successo. Mi sono dovuta guadagnare ogni singolo voto, non mi sono stati mai concessi momenti di crisi né di stanchezza. Non rimpiango nulla. Ogni fatica mi è servita ad apprezzare il valore del sacrificio e la soddisfazione di avercela fatta. C’è un film molto bello, Mona Lisa Smile, ambientato negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, in cui una giovane insegnante di storia dell’arte giunge nel prestigioso collegio femminile di Wellesley in cui, a dispetto della nomea altisonante e dell’aria falsamente progressista, nei fatti l’unico scopo al quale i docenti sono chiamati ad attenersi, pena il licenziamento, è quello di preparare le studentesse alla vita matrimoniale con un buon partito, senza infarcire la loro mente di aspettative, sogni e vane speranze. Qualche passo è stato fatto rispetto a quanto magistralmente narrato nel film, ma sono ancora molte, troppe, le disparità a livello sociale e di genere che spesso impediscono a uomini e donne di realizzare pienamente i loro talenti ed i loro sogni. Le statistiche ci dicono che tre donne su dieci decidono di intraprendere il dottorato di ricerca e che circa l’80% delle donne, contro il 95% degli uomini, scelgono facoltà scientifiche. Le più precluse sembrano essere quelle di matematica, ingegneria, chimica. Non dobbiamo nascondercelo: il nostro sistema di istruzione è ancora fortemente impregnato di stereotipi di genere. Siamo ancora convinti che l’insegnamento sia un mestiere per donne, ma non l’incarico dirigenziale. Per non parlare poi dei famosi ascensori sociali. Fondamentalmente chiusi e mal funzionanti negli anni Novanta, sono sostanzialmente preclusi ai più ancora oggi. Negli anni Novanta i non benvenuti a bordo eravamo noi: generalmente donne, appartenenti ad una classe sociale modesta, con un background familiare di alcun rilievo, peggio ancora se dimostravamo capacità, intelligenza e, soprattutto, determinazione. Oggi sono ancora molte le categorie di invisibili, a livello sociale, che non possono maturare particolari aspirazioni. Ed anche quando non sono precluse le vie dell’istruzione, molto spesso, però, si ritrovano sbarrate quelle dell’occupazione, soprattutto per quelle donne che, oltre alla carriera, desiderano anche avere una famiglia, pessima combinazione di questi tempi. E’ il non poter scegliere in piena libertà, oggi come allora, ad indignarmi. E’ il trincerarsi dietro ad una meritocrazia fasulla che mi fa ribollire il sangue. Una meritocrazia che non contempla ancora che ci possano essere eccellenze tra le classi sociali più modeste, tra le donne, tra gli stranieri provenienti da Paesi economicamente deboli. Il mondo continua ad essere pieno di leggi non scritte le quali, però, nei fatti lo governano. Una volta chiesi a mia madre se non le avessero dato fastidio i commenti di quegli illustri estranei che per un lungo tempo avevano sentenziato sulle mie scelte di studio e lavorative, una più scellerata dell’altra. La sua risposta guida ancora oggi quello che voglio essere. Mi disse che sì, quei commenti le facevano male, perché ferivano la sua capacità di essere madre e perché le persone si sentivano in dovere di esprimere consigli e giudizi non richiesti in una casa non loro. E quando le ho chiesto se avesse mai avuto paura di essersi sbagliata, se avesse sentito la responsabilità di permettermi di fare quelle scelte, magari non negandomele perché non ne aveva il coraggio, ma sentendo dentro di sé che, in fondo, quei presagi di vuoto e di spreco del mio tempo e della mia vita non fossero del tutto sbagliati. “Questo no” mi ha detto. “Ognuno di noi, che lo voglia ammettere o no, conosce i propri figli. Non ho mai pensato di avere la figlia più brava o intelligente del mondo. Ho sempre appoggiato le tue scelte non perché fossi un genio, o perché avessi una qualche particolare aspettativa su di te, ma perché sapevo che non ti saresti arresa di fronte alle difficoltà. E infatti non ti sei mai arresa, nonostante tutto. Tu non lo puoi ricordare, ma quando avevi tre anni ti ho iscritto a scuola di danza, perché volevi fare la ballerina. Quelle maestre di danza che si vantavano di essere parenti alla lontana di Carla Fracci spesso ti guardavano e ridevano. Perché eri piccola, cicciottella e con nessun requisito che facesse pensare che tu potessi diventare una stella della danza. Dovevi fare il balletto di una farfalla, ma dicevano che più che ad una farfalla assomigliavi ad un elefantino. E invece tu hai imparato a ballare. Il giorno che hai fatto il saggio, infischiandotene di quelle risatine sotto i baffi, sei stata l’elefantino più simile ad una farfalla che io abbia mai visto. Da quel giorno ho sempre saputo che avresti portato la tua vita ovunque, indipendentemente dal tuo essere e dalle tue capacità, bastava solo che lo volessi. Mi facevano male quei commenti indelicati, come facevano male a te anche se non lo hai mai detto. Ma il vero coraggio è credere in se stessi anche quando nessun altro sarebbe disposto a farlo”.