È di pochi giorni fa la notizia che a Parma un’insegnante di una scuola media è stata minacciata e aggredita dallε suε alunnε, che le hanno tirato dei sassi fuori dalla scuola: una situazione di tensione cresciuta per tutto l’anno precedente, con un corpo insegnante diviso sui metodi educativi e l’utilità delle note, e dellε ragazzε convintε di poter fare qualunque cosa in quanto non imputabili se minori di 14 anni.

Credo che la preadolescenza sia un’età ingrata. Anche più ingrata dell’età ingrata per eccellenza: l’adolescenza. In realtà credo che sia un’età particolarmente difficile per noi adultε, e di conseguenza lo diventa ancora di più per lε ragazzε. Credo che sia terribilmente facile sottovalutarne le difficoltà. Non sono più bambinε con cui far valere l’autorità, ma risulta ancora difficile trattarlε “da grandi”. In pochi anni saranno adolescenti che si affacciano dal loro bozzolo, mutatε, umbratili, proto-adultε. Invece tra gli 11 e i 13 anni sono ancora piccolε, ma già stanno operando la loro inquietante trasformazione. Appaiono più che mai volubili, un giorno sembrano già grandi e il giorno dopo sono di nuovo bimbε, eterogeneε, in fasi vistosamente diverse della mutazione. Mi capita di pensare alla scuola media come al cortile della maga Circe …teatro di mille trasformazioni corporee, crisi identitarie espresse da voci deformate dal cambiamento, che stentano a riconoscersi mentre si atteggiano a qualcosa che ancora non sono o che ormai non possono più essere… In questa arena avranno il loro primo assaggio della battaglia, cominciando a provarsi un’armatura adeguata: che sia quella splendente e fragile della bravura, quella pesantissima e impenetrabile dell’invisibilità, o ancora quella scivolosa della buffonaggine o quella spaventosa e acuminata dell’aggressività, come nella classe di Parma.

Chiaramente non succede tutto a 11 anni: già durante l’infanzia si accumulano piccole e grandi fratture, discontinuità irreversibili nella linea prevedibile del proprio tempo, eventi avversi e/o traumatici che rappresentano un “salto” esperienziale, di maturazione e crescita. Ognunə arriva alla pubertà con la sua storia. Tuttavia, durante l’infanzia si stabiliscono dei parametri di sicurezza, la rappresentazione di sé-nel-mondo trova di solito un suo equilibrio, fatto di esplorazioni fiduciose o di evitamenti e proteste, di presenze adulte di riferimento, cui appoggiarsi o da evitare, o ancora da rincorrere disperatamente. Non è detto che la vita sia felice, ma si stabiliscono delle aspettative, dei modelli operativi, e l’implicito di quei modelli operativi è il proprio posto nel mondo, se non un senso implicito di valore di sé (esisto, ho un posto, è mio, lo merito, lo valgo), quantomeno una sorta di mappa per trovarlo. Artefice della tessitura di questa mappa è il processo identitario, una cabina autoriflessiva che traduce costantemente i cambiamenti in una rappresentazione coerente di sé nel tempo, assicurandosi una sorta di continuità narrativa. Un senso di orientamento nella propria esperienza costruita perlopiù come graduale e continua. Con la pubertà, fisiologicamente, questa gradualità salta. E così il proprio posto nel mondo e il senso del proprio valore.

Intorno agli 11 anni, più precocemente per le femmine, il corpo cambia di colpo: lo “scatto di crescita”, la maturazione gonadica e lo sviluppo ormonale, con l’affermarsi nel corpo dei tratti sessuali secondari. Ma alla pubertà si aggiunge il cambio delle aspettative sociali, con una perdita di orientamento nelle relazioni affettive e nelle dinamiche con i pari. Si dice che la pubertà è un cambiamento fisico, mentre l’adolescenza è un cambiamento psicologico, ma come chiamiamo ciò che accade nella rete sociale di sguardi e di aspettative? Una deriva dei continenti che vanifica ogni mappa costruita nell’infanzia: le stesse persone adulte di cui si erano interiorizzate le relazioni, cominciano a guardare in modo diverso, ad aspettarsi cose diverse. Le relazioni accusano il colpo del disconoscimento. Lε adultε cominciano a dubitare delle loro idealizzazioni, rivolgendo allε figliε sguardi apprensivi e a tratti delusi. O peggio continuano imperterritε a guardarlε come bimbε, senza “vedere” il cambiamento che lε figliε invece “sentono”. In entrambi i casi lo sguardo nel cui riconoscimento si trovava sicurezza diventa uno specchio opaco e, come nebbia, sale la malinconia per la perdita dell’infanzia. Ma non c’è tempo per piangere, perché nello stesso momento inizia una gara, di cui nessuno ha spiegato le regole, cui nessuno ha deciso se partecipare o no, ma di cui tutti sembrano avere sentito lo start, la sirena d’allarme, l’ansia per ciò che si dovrà fare e/o essere, che dice che intanto bisogna cominciare a correre. Il gruppo dei pari è già pronto a sanzionare ogni ritardo e ogni sgarro di percorso: nuovε compagnε, in un nuovo ciclo scolastico, sotto lo sguardo distaccato di “professori e professoresse” che chiedono del “lei” e chiamano per cognome… chiedere aiuto per una situazione di bullismo può essere più difficile e il pozzo della solitudine cui si rischia di essere condannatε più profondo.

Personalmente ho un bel ricordo delle medie, eppure basterebbe un piccolo sondaggio tra lε mieε pazienti (o quellε di qualunque altro psicologo immagino), per stupirsi di quantε identifichino quel periodo come l’inizio della sofferenza presente. Se la vita di ognunə, con le sue sfide piccole o grandi, fosse un “viaggio dell’eroe”, per dirlo con la struttura narrativa proposta da Vogler, la pubertà sarebbe forse il momento della “chiamata all’avventura” che ne stravolge il mondo ordinario. In quel caso, la prima risposta dell’eroe è di rifiuto: “no lasciatemi bambinə”, per poi cambiare idea e affrontare la sfida grazie all’incontro con unə “mentore”.

La scuola media, collettivamente, dovrebbe essere quel mentore, ma a 60 anni dalla sua fondazione c’è chi considera che non sia la struttura giusta per accogliere e promuovere questo bisogno di supporto e di guida. Un dibattito complesso, che siamo lontanε dall’affrontare seriamente.

Federico Ferrari, psicologo psicoterapeuta

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