Regia: Samira Makhmalbaf
Genere: Drammatico
Tipologia: Multicultura, Guerra, Migrazioni, Il mondo della scuola
Interpreti: Barman Ghobadi (Reeboir), Behnaz Safari (Halaleh), Said Mohamadi (Said)
Origine: Iran, Giappone, Italia
Anno: 2000
Trama: Tra i monti dell’Iran, ai confini del Kurdistan, si aggirano come ombre dei maestri sotto il peso di grosse lavagne d’ardesia. La loro scuola è dovunque vi siano scolari disposti a imparare a leggere, scrivere, far di conto. Impresa non facile. Nessuno sembra disposto a seguire il loro caparbio desiderio d’insegnamento, di trasmettere sapere, cultura. Non ha fortuna Reeboir. I suoi potenziali discepoli preferiscono dedicarsi ad un’impresa ritenuta più «facile» e più remunerativa: trasportare merce di contrabbando attraverso quelle montagne aguzze e desolate, sotto il rombo degli aerei che sganciano bombe. Né migliore sorte ha Said in un villaggio apparentemente deserto. Anche i profughi (vecchi, donne, bambini) che scappano dalla guerra non sembrano interessati. La loro miseria, la loro angoscia ha bisogno di ben altro. Quelle scure pesanti lavagne che in altre circostanze, in altri luoghi e in altri tempi si trasformano in strumento di diffusione del sapere non sembrano essere capaci di combattere la povertà, l’ignoranza, l’illogicità della guerra. Il valore della lavagna di Said non è nemmeno l’adeguato pegno di matrimonio per sposare la figlia dell’unico profugo che gli presta attenzione.
Recensione: Lavagne è il secondo film della ventenne regista iraniana Samira Makhmalbaf. Esso, sembra non avere alcuna pretesa narrativa, un vero e proprio racconto. Più che sui dialoghi, esigui e scarni, si poggia soprattutto sulle immagini e, attraverso la loro potenza comunicativa, riesce a coinvolgere e trasmettere, ancor più delle parole, idee e significati a insinuarsi nell’animo e nella mente dello spettatore e a scalfirne credi e certezze. È un film di un’attualità incredibile. Dà il senso del tempo e inchioda l’insensibile occidente europeo (tutto preso a difendere i propri confini) alle proprie responsabilità e complicità a tanta tragedia. A farci riflettere sono soprattutto la miseria, la paura, la fuga dei profughi (vecchi, donne, adolescenti, bambini) in cerca di un luogo sicuro, lontano da una guerra che non si vede esplicitamente, ma di cui, però, s’intuiscono angoscia, morte, illogicità. Certo, in un paese chiuso nelle proprie tradizioni, leggi, convinzioni e riti del passato come l’Iran e gran parte del mondo mediorientale, non c’è spazio per una denuncia esplicita, pena isolamento e persecuzione. Occorre esprimersi attraverso metafore, far solo intuire le contraddizioni e puntare sulle nuove generazioni, mettere a loro disposizione la cultura quale unico antitodo possibile ai soprusi, all’assenza di giustizia e democrazia, ai diritti e bisogni primari negati. Lavagne è tutto questo. Una denuncia velata, un forte invito alla riflessione, un desiderio di solidarietà, un auspicio di cambiamento che fa perno, appunto, su un semplicissimo e rudimentale strumento di trasmissione del sapere: la lavagna. Il film della Makhmalbaf non è certamente l’unico che affronta questi delicatissimi problemi anche se li contestualizza in tempi e luoghi segnati dalla guerra. Già, in verità, il cinese Zhang Ymou, l’anno precedente, in un contesto diverso ma ugualmente desolato e culturalmente sterile e contradittorio, in Non uno di meno, pone alla fine del suo film lo «strumento lavagna» su cui i bambini possono finalmente scrivere ideogrammi con tanti gessetti colorati come simbolo di potenziale conquista culturale. E l’iraniano Abbas Kiarostami nel suo più datato Dov’è la casa del mio amico? (1987) fa, della consegna al compagno di banco del quaderno scambiato, un altro simbolo di trasmissione del sapere, lo strumento per scardinare le rigide regole di una scuola e di una società tutta chiusa in un mondo arcaico, cristallizzato, immodificabile.
A. C.