Ogni giorno, l’assistente sociale nell’esercizio della professione incontra le persone che si rivolgono ai servizi e, come prima cosa – a prescindere dalle circostanze che le abbiano condotte fin lì – le accoglie e le ascolta. Ha ben presente la fatica che, in un modo o nell’altro, hanno dovuto affrontare per arrivare fino alla sua porta. Sia questa porta l’ingresso del suo ufficio, di uno sportello, di una unità di strada, di un centro di accoglienza o la soglia della casa delle persone stesse. Sa bene che si troverà a confrontarsi con la complessità dei bisogni, con delle aspettative di aiuto o, al contrario, con delle diffidenze e sa di avere a disposizione un ventaglio di possibilità tutte da costruire a partire da un repertorio di risposte vincolato, in gran parte predefinito dal contesto organizzativo, dalle regole del servizio, dalle norme di riferimento a monte della programmazione. L’assistente sociale ha ben chiaro che la persona che ha di fronte nella sua unicità rappresenta spesso bisogni complessi, difficilmente riconducibili a risposte standardizzate. Egli quindi, come specificato nel preambolo del codice deontologico, “con la propria attività, concorre a realizzare e a tutelare i valori e gli interessi generali, comprendendo e traducendo le esigenze della persona, dei gruppi sociali e delle comunità”[1] . Nel suo lavoro quotidiano, a contatto ed in relazione con le persone, egli si spende per rendere realmente esigibili i diritti, confrontandosi con risorse limitate rispetto alla vastità e alla complessità delle domande. Di fatto, l’assistente sociale, lavora per realizzare concretamente quanto previsto dalle politiche sociali, perseguendo obiettivi di giustizia sociale e cercando quindi di essere allo stesso tempo imparziale ma flessibile e creativo nella costruzione di risposte, il più possibili integrate, che possano anche andare oltre standardizzate predeterminazioni e rigide sfere di competenza. Cercando di ricondurre, in fin dei conti, l’intervento in un orizzonte olistico. Possiamo dire che l’assistente sociale ben rappresenta gli street level bureaucrats definiti da Lipsky come quei lavoratori dei servizi pubblici che interagiscono direttamente con i cittadini svolgendo la delicata funzione di elargire beni, servizi e/o sanzioni in contesti caratterizzati da una costante scarsità di risorse nei quali essi sperimentano una tipica tensione tra le pressioni che li vincolano “dall’alto” e le richieste dei cittadini che li incalzano “dal basso”[2]. Lavoratori che, come l’’assistente sociale, rappresentano quindi l’interfaccia tra istituzioni e cittadini. Per questo Lipsky riconosce a questi professionisti “street level” un ruolo decisivo in quanto il loro operato si traduce in scelte che quotidianamente danno concreta “forma” alle politiche, che non possono di fatto sostanziarsi se non ad un livello di prossimità, street level appunto, che tocca direttamente la vita delle persone che ne fanno esperienza[3]. Tali scelte – evidenzia Lipsky – contengono necessariamente un certo grado di discrezionalità. Necessariamente, perché da un lato chiamano in causa l’autonomia di giudizio, tecnica ed intellettuale del professionista[4], dall’altro perché norme e regole non possono esaustivamente rendere conto della complessità delle umane vicende (sia degli operatori sul posto di lavoro che dei fruitori dei servizi). Ma il ruolo strategico dello “street level bureaucrat” si esercita anche in direzione contraria, dal basso street level verso l’alto: nel nostro caso specifico, “l’assistente sociale riconosce il ruolo politico e sociale della professione e lo esercita agendo con o per conto della persona e delle comunità, entro i limiti dei principi etici della professione”[5]. Nel rendere di fatto esigibili i diritti e nel rendere accessibili delle risorse[6] l’assistente sociale si trova quindi, stretto tra i vincoli dell’organizzazione e le richieste delle persone, ad affrontare dei dilemmi e ad esercitare scelte con una quota di “discrezionalità”. Discrezionalità intesa qui in accezione positiva, in quanto eticamente orientata, come margine di azione, anzi agency,dell’operatore nel tentativo responsabile di dare risposte destreggiandosi tra leggi o vuoti normativi, regolamenti e procedure farraginose, obiettivi contraddittori, vincoli impliciti ed espliciti, scadenze impossibili, linee guida vaghe, tardive ed anacronistiche, risposte standardizzate a fronte di bisogni complessi espressione dell’unicità delle persone. Una discrezionalità agita come risorsa che consente a volte di elaborare strategie operative per mettere in campo soluzioni e percorsi utili in tutti quei “casi particolari” che non si incasellano nella griglia del repertorio di risposte previste “uguali per tutti”. Il punto di vista della street level bureaucracy ben evidenzia, più di altri approcci che restano focalizzati sull’analisi delle politiche e delle programmazioni, come l’assistente sociale svolga un ruolo chiave, strategico. Affrontando i dilemmi connaturati alla professione[7] egli ogni giorno non si limita ad adempiere, ma si assume la responsabilità di compiere scelte – anche operando una discrezionalità eticamente orientata – che sostanziano le politiche rendendo realmente esigibili i diritti delle persone, individuando nuove e diverse possibilità di risposta e impegnandosi a restituire alle istituzioni e alla politica le evidenze di una domanda sociale complessa e in divenire[8].
Angela Roselli, assistente sociale specialista, giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Roma, docente a contratto del corso di laurea magistrale in “Progettazione, valutazione e gestione dei servizi sociali” – Sapienza Università di Roma.
[1] CNOAS, 2020, Codice Deontologico dell’Assistente Sociale, preambolo, p.7)
[2] Lipsky M., 1980, Street Level Bureaucracy: Dilemmas of the Individual in Public Services, New York, Sage; p.13
[3] E che di conseguenza giudicheranno quelle politiche in base alla percezione che ne avranno! Si pensi ad esempio all’impatto dell’attuale passaggio dal Reddito Di Cittadinanza all’Assegno di Inclusione.
[4] L’assistente sociale afferma e difende la propria autonomia di giudizio, tecnica ed intellettuale da pressioni e condizionamenti di qualunque natura in tutte le proprie azioni e interventi professionali (CNOAS, 2020, Codice Deontologico dell’Assistente Sociale, art.18)
[5] CNOAS, 2020, Codice Deontologico dell’Assistente Sociale, art.7
[6] L’assistente sociale favorisce l’accesso alle risorse, concorre al loro uso responsabile (ibidem, art.41)
[7] I dilemmi etici sono connaturati all’esercizio della professione. L’assistente sociale li individua e li affronta evidenziando i valori ed i principi in contrasto. Le scelte professionali che ne risultano sono la sintesi della valutazione delle norme, del sapere scientifico, dell’esperienza professionale e sono comunque indirizzate al rispetto della libertà, dell’autodeterminazione e a conseguire il minor svantaggio per le persone coinvolte. Il professionista orienta la propria condotta alla massima trasparenza circa le ragioni delle proprie scelte e documenta, motivandolo, il processo decisionale (ibidem, art.14)
[8] L’assistente sociale contribuisce all’appropriatezza, all’efficacia e all’efficienza, all’economicità, all’equità e alla qualità degli interventi nonché al miglioramento delle politiche e delle procedure della propria organizzazione di lavoro. Contribuisce, in funzione delle proprie attribuzioni e responsabilità, alle azioni di pianificazione e programmazione, anche mettendo a disposizione i dati e le evidenze relative alla propria attività professionale (ibidem, art.50)