Le riflessioni proposte oggi per comprendere se e quanto la Legge 184 /1983 ha adempiuto agli obiettivi e alle finalità che si era proposta con estrema attenzione e lungimiranza partono da un primo quesito, a mio avviso centrale: come affrontare l’incongruenza tra la durata dell’affido prevista dalla legge e la complessità che la realtà dell’affido presenta?
Rispondere a questo quesito rimanda ad alcune riflessioni sulla storia dell’affidamento familiare che si intrecciano indissolubilmente, a mio avviso, al potere intrinsecamente salvifico attribuito ancora oggi alla famiglia, intesa come entità naturale e astorica (Fruggeri, 2018), da alcune correnti reazionarie e fortemente ideologiche, purtroppo ancora attive nel nostro panorama sociale e politico.
Facciamo un passo indietro. La cronologia giuridica ci aiuta. Nel 1983 la legge 184 è stata accolta dai professionisti del settore come fortemente innovativa: introduceva l’affidamento familiare, fino ad allora pratica adottata spontaneamente tra persone della stessa comunità sociale, in assenza di regolamentazione giuridica e lo declinava al plurale come segue e recita l’articolo 2 comma 1: “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell’art 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento , l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno” proseguendo nel comma seguente: “ove non sia possibile l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza, pubblico o privato, che abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza. Per i minori di età inferiore ai sei anni l’inserimento può avvenire solo presso una comunità di tipo familiare (art.2 comma 2)
Per almeno un decennio si è lungamente discusso sull’interpretazione dell’articolo 2 e, principalmente sulla gerarchizzazione delle soluzioni proposte dal legislatore. Alcuni esponenti delle correnti meno progressiste hanno voluto individuare nell’ordine delle soluzioni indicate un’implicita gerarchia che, tradotta operativamente, implicava una progressione di scelte. Un bambino/bambina e un’adolescente o una adolescente da allontanare da una famiglia temporaneamente incapace di provvedere ai suoi bisogni evolutivi, avrebbe richiesto al servizio territoriale competente la selezione in primis di una famiglia con figli propri (in modo da evitare di colludere con possibili desideri di genitorialità della coppia non espressi e vissuti tramite una generatività propria), e in seconda battuta di un single e a seguire di una comunità di tipo familiare. Solo in assenza di queste soluzioni la legge prevedeva il ricorso all’istituto, opzione che viene a decadere diciotto anni dopo, con la revisione della stessa legge 184/1983 attuata tramite la legge 149/2001 che, tra gli altri innovamenti, sanciva la chiusura degli istituti per minori entro la data del 31 dicembre 2006.
Se ci soffermiamo a decodificare le rappresentazioni sociali di tutela del minore appartenente a famiglie in difficoltà, sottese a queste prime indicazioni fornite dalla legge 184, non fatichiamo a riconoscere il contesto culturale degli anni ottanta nel suo approccio antiistituzionale (istituto come ultima ratio) e principalmente focalizzato sull’assicurare a tutti i figli i diritti primari riconosciuti nel trittico “educazione, istruzione e relazioni affettive”. Anche in questo caso la sequenza non è casuale ma risponde a criteri di priorità resi espliciti dalla preminenza dell’educazione(rieducazione) e dell’istruzione (rimandando al concetto di povertà culturale ed economica delle famiglie d’origine) rispetto alla variabile relazionale (in ultima posizione).
In altri termini la rappresentazione implicita di soggetto minore bisognoso di affidamento rimandava a un figlio deprivato di educazione e cultura da una famiglia, prioritariamente povera e trascurante, e, pertanto, poco propensa e competente nell’offrire educazione e cultura ai propri figli, ma non necessariamente compromessa nelle sue competenze genitoriali, temporaneamente non ben funzionanti. Si veniva così a salvaguardare l’assunto di competenza genitoriale ascritta al genoma umano e il conseguente stato di transitorietà delle difficoltà familiari, principalmente attribuibili a problematiche terze e perlopiù esterne al funzionamento familiare (povertà, ignoranza, numerosità filiare, trascuratezza igienica ed educativa). Anche la rappresentazione di nucleo affidatario non andava ad intaccare il mito familiare in quanto, quest’ultima famiglia si distingueva dall’altra- richiedente l’affidamento- principalmente per non essere aggravata da quelle pregiudizievoli condizioni di malfunzionamento attribuibili perlopiù a quegli stessi fattori responsabili della fragilità temporanea delle famiglie biologiche bisognose di affidamento per i propri figli (Povertà, deprivazione culturale, vedovanza, numerosità filiare, emigrazione). A conferma può anche essere compreso l’ordine delle soluzioni proposte: in primis un’altra famiglia (meglio se con figli propri, per le ragioni suddette, un single e una comunità di tipo familiare). In questa sequenza riconosciamo lo stereotipo di famiglia tradizionale (Bastianoni,Taurino,2005) che vede nella prima configurazione proposta : la famiglia composta da una coppia coniugata generativa, la miglior possibilità, solo in virtù delle sue condizioni strutturali (coniugata, residente e generativa) e a seguire le altre due : la famiglia monogenitoriale ( single residente) e la comunità di tipo familiare (persone residenti ma non necessariamente legate da vincoli biologici) che si allontanano progressivamente dalla qualità della condizione familiare garantita dallo stereotipo stesso di famiglia.
Nelle riflessioni scientifiche successive, documentate dalle ricerche discusse dalle autrici, per pervenire ai dati forniti nel 2017 dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali relativi ai 14.020 minori in affidamento censiti in Italia nel 2014, l’affidamento viene discusso a prescindere dalla pluralità delle sue modalità fattuali in cui era articolato nella sua versione originale. Si perde traccia dell’affidamento a single (esclusi perlopiù a causa di impliciti pregiudizi sulla motivazione alla genitorialità, “naturalmente” attribuita alla coppia ma non al single che potrebbe nascondere motivazioni inappropriate se non propriamente patologiche: insoddisfazione personale, relazionale e sentimentale, pedofilia), degli affidamenti inclusivi di un genitore o dell’intera famiglia biologica, delle tipologie sperimentali.
Queste considerazioni non sono neutre rispetto al primo ventennio di promozione dell’istituto dell’affidamento da parte degli enti predisposti alla sua attuazione (prevalentemente i servizi sociali), che anche nelle scelte iconografiche riconoscibili nei manifesti e nelle brochure dedicate al reperimento di famiglie affidatarie, alla realizzazione di corsi di conoscenza e promozione dell’affidamento rivolti alla cittadinanza, privilegiavano raffigurazioni concernenti una donna, un uomo e un bambino che si tengono la mano, sorridenti e con alle spalle fondali tratteggianti perlopiù una casa e un cuore.
Un‘iconografia, dunque, che promuoveva una rappresentazione e un’interiorizzazione dell’affidamento in una versione mutilata dalla intrinseca triadicità di questo intervento (famiglia biologica, famiglie affidataria, minore) riducendolo a una storia prevalentemente diadica (famiglia affidataria e bambino accolto in affidamento).
Dal punto di vista strettamente operativo questa rappresentazione semplificata ed edulcorata del processo di affidamento ha veicolato l’interesse e i fondi a disposizione per la promozione dell’affidamento familiare verso l’individuazione e la selezione di famiglie idonee all’affido (Greco, Iafrate,2002), privilegiando un orientamento e una riflessione rivolti prevalentemente alle caratteristiche strutturali e dinamiche della famiglia affidataria, concentrandosi sulla sua formazione, prevalentemente di tipo tradizionale (top down), incentrata su quali informazioni dare alle famiglie disponibili all’affidamento e su quali prerequisiti selezionarle, a detrimento delle risorse rivolte a monitorare i processi di affidamento in atto (supervisione alle famiglie affidatarie per facilitare la comunicazione con le famiglie d’origine, con i figli in affidamento e con i propri, nel riconoscimento dei principali compiti evolutivi di questa temporanea configurazione familiare specifica, nel riconoscimento del disturbo post traumatico da stress e degli altri indicatori relativi al traumatismo infantile).
Anche i finanziamenti rivolti al sostegno delle politiche di affidamento sono stati rivolti prioritariamente in questa direzione accentuando, nel contempo, la necessità di ridurre fino ad azzerare l’istituzionalizzazione dei minori portata a formale compimento con la legge 149 del 2001, includendo in modo troppo sommario nelle forme di istituzionalizzazione anche le comunità educative (Bastianoni, Taurino, 2009).
Cosa è successo nel frattempo?
La rigidità di un modello ideologico, non supportato da una capacità riflessiva includente le acquisizioni scientifiche in merito alla gestione di situazioni complesse post-traumatiche nonchè la necessità di leggere e sostenere i complessi processi diagnostici e relazionali che l’affidamento richiede, hanno contribuito a rendere manifesto, già nell’arco del primo decennio di attuazione dell’affidamento familiare, l’intrinseca fragilità di una riflessione e di una prassi operativa troppo aderente a immagini stereotipiche idealizzate e fortemente connotate in senso religioso .
Le prime considerazioni relative alle indagini sugli esiti degli affidamenti familiari avviate in Italia già a partire dalla fine degli anni ottanta documentavano storie fallimentari di affidamenti reiterati che rendevano altamente pregiudizievoli le condizioni di vita di quei minori che oggi definiremmo vittime di maltrattamento istituzionale (Del Conte, 1989) iniziando a rendere visibili i pregiudizi buonisti alla base di istanze teoriche, metodologiche, pragmatiche e politiche fondate sullo stereotipo di una famiglia capace di curare e riparare i danni prodotti da un’altra famiglia solo sulla base della sua intrinseca capacità di amore e di accoglienza.
Sono di quegli anni le prime ricerche e riflessioni teoriche sulla natura riparativa dei legami relazionali, sulla base della teoria bowlbiana e sulla necessità di comprendere la tempistica sufficiente per intraprendere i processi di risignificazione di se’ e della propria storia relazionale che la psicopatologia evolutiva(fondata proprio agli inizi degli anni novanta) considerava alla base del paradigma processuale di contrasto al rischio evolutivo già avviato da Rutter e sviluppato da Sameroff, Emde, Cicchetti, solo per citare i principali esponenti di questa corrente disciplinare.
Il tempo, in questa seconda fase di riflessione sull’affidamento familiare, diventa una variabile oggetto di preminente attenzione. Da un lato i tempi medi di durata degli affidamenti familiari smentiscono il presupposto della “temporaneità” del disagio della famiglia d’origine che, nell’ipotesi del legislatore, doveva distinguere l’affidamento dall’adozione, dall’altro il tempo inizia a configurarsi come variabile processuale da valutare e considerare non soltanto in termini di durata di un percorso di cui valutare al termine gli esiti, ma come oggetto precipuo di analisi.
Con esiti fallimentari le ricerche esaminate ci introducono alle tematiche del poco frequente ricongiungimento familiare, delle reiterazioni di affidamenti familiari nella storia evolutiva di un singolo minore, del sentimento di solitudine e abbandono da parte dei servizi sociali denunciato dalle famiglie affidatarie che si vedono costrette a dotarsi di metodologie e strumenti autonomi incrementando le forme di auto muto aiuto, organizzandosi in associazioni, dotandosi di consulenze psicologiche sistematiche assolutamente carenti e sporadiche nel servizio pubblico.
L’attenzione alla variabile temporale diventa volontà da parte di studiosi e operatori del settore di rivolgere l’attenzione al processo affidatario per poter rispondere all’ingenuità dei due anni, come arco temporale massimo proposto dalla legge 149/01 che tenta, con questa indicazione normativa, di indirizzare l’impegno dei servizi nella direzione di una valutazione diagnostica differenziale tempestiva e precoce per contrastare affidamenti che si protraggono per troppi anni inficiando il presupposto stesso di questo stesso strumento d’intervento.
Dopo quattordici anni, la legge 173/2015, definita anche la legge della continuità affettiva, decreta, in sordina, il fallimento dell’affidamento familiare nella sua formula intenzionale e originale, destinandolo ad una completa rivisitazione a più di trent’anni dalla sua iniziale programmazione e attuazione.
Come rispondere allora alla domanda che ha avviato queste brevi considerazioni cercando di fornire argomentazioni che possano giustificare l’incongruenza tra la durata dell’affido prevista dalla legge e la complessità che la realtà dell’affido presenta? Semplicemente decostruendo la stessa domanda e rinunciando alla semplificazione.
L’affidamento familiare non può essere sempre realizzato in tempi contenuti e, non sempre, è la soluzione indicata per bambini allontanati dalle proprie famiglie traumatizzanti. Non lo è affatto nei casi, sempre meno rari, di traumi relazionali precoci che si riattivano proprio nelle situazioni di intimità familiare tipiche dell’affidamento/ adozione, mentre consentono a quegli stessi bambini di funzionare meglio in ambienti che li espongano meno al rischio di riattivazioni traumatiche, quali le comunità di accoglienza, che possono garantire al bambino/adolescente traumatizzato un ambiente sufficientemente responsivo, ma non troppo intimo, per poter mantenere un funzionamento psichico idoneo a intraprendere una psicoterapia focalizzata che consenta loro di rielaborare il /i traumi relazionali subiti e rimossi.
L’affidamento familiare richiede estrema cura da parte di professionisti pubblici e privati del processo affidatario in ogni sua fase e nella direzione di favorire una comunicazione circolare e non oppositiva tra gli interagenti (famiglia biologica, famiglia affidataria, figli e servizi) affinchè nessuno venga escluso per ipersemplificazione nelle analisi dei processi in atto e/o per assenza di professionisti dedicati.
L’affidamento familiare può ritrovare un giusto collocamento nella pluralità della sua declinazione iniziale (affidamento a famiglie, a single, a comunità di tipo familiare, per un periodo medio lungo o lungo tale da configurarsi sine die) se siamo disposti a comprendere e ad accettare la correlazione tra esiti fallimentari e aspetti e quantità dell’incuria del processo affidatario da parte dello stesso sistema di tutela che deve essere primariamente interessato a rinunciare a ipersemplificazioni culturali e d’intervento nella direzione di promuovere luoghi deputati sistematicamente e continuativamente alla comprensione e all’incremento della riflessività richiesta a tutti gli interagenti per non incedere al rischio, già troppo perseguito, di espellere dal quotidiano la fatica di un’inclusione tutt’altro che facile.
Paola Bastianoni
Riferimenti bibliografici
Bastianoni, P., Taurino A. (2005), Famiglie per affetto e per professione in Fruggeri L. (a cura di) Diverse normalità. p. 60-72 Roma: Carocci
Bastianoni, P. Taurino A. (2009), Le comunità per minori: il dibattito attuale in Bastianoni, P. Taurino A. Le comunità per minori: modelli di formazione e supervisione clinica. p.15-46, Roma: Carocci
Canali, C., Vecchiato, T (eds) (2013). Foster care in Europe:what do we know about outcomes and evidence ? Padova: Fondazione Zancan
Del Conte L. (1989), Abuso da parte delle istituzioni: come si disgrega un minore, in Bambino Incompiuto, p.135-145
Fruggeri, L. (2018). Famiglie d’oggi. Quotidianità, dinamiche e processi psicosociali. Roma: Carocci
Greco, O., Iafrate R. (2002), Figli al confine, una ricerca multimetodologica sull’affidamento, Milano: Angeli