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Capitolo 3

Stremata dalle conseguenze della sua malattia Paula, la figlia di Isabel Allende, muore. È straziante il dolore per la morte di un figlio. A volte, si può persino desiderare la morte anche per se stessi.  Ma a volte no. A volte si può desiderare di continuare a sentirsi vivi, pur nell’immenso dolore della perdita.

E’ successo a nonna Iris che, dopo la morte del nonno, ha voluto celebrare la vita, la sua e la nostra, fino al suo ultimo istante, pur nella consapevolezza che qualcosa con la morte di nonno Pupi si era rotto e non sarebbe mai più stato possibile ricucirlo. Anche Isabel è viva, gli altri suoi cari sono vivi. Allora Isabel capisce che non vi è alcun merito nel restare in vita, come non vi è alcuna punizione nel morire. La vita e la morte sono entrambi contemporaneamente presenti dentro di noi, in ogni momento: noi passiamo continuamente dalla vita alla morte, ad ogni gioia, ogni dolore, noi moriamo e subito rinasciamo. Accogliamo  le perdite , le sconfitte, dentro di noi facciamo morire le speranze che ci hanno tenuti legati ai nostri sogni, ma poi non possiamo fare altro che nascondere il dolore in una parte appartata della nostra mente per rialzarci, trasformare i nostri desideri e le nostre illusioni e continuare il cammino, perché siamo irrimediabilmente fatti per la vita, l’eternità e l’amore. Questa sono io, sono una donna, ho un nome, mi chiamo Isabel, non sto trasformandomi in fumo, non sono scomparsa. Mi osservo nello specchio d’argento di mia nonna: questa persona dagli occhi desolati sono io, ho vissuto quasi mezzo secolo, mia figlia sta morendo, eppure voglio ancora far l’amore (Isabel Allende). Eppure la sete di vita non ci risparmia dalla morte. Dopo pochi anni dalla morte di nonno Pupi, anche nonna Iris si ammalò gravemente. Questa volta capimmo subito che il tempo che ci restava da passare insieme era poco, troppo poco. Non ho avuto il coraggio di Isabel: nonostante ci fossero tante cose che avrei voluto dire a nonna Iris, in quei pochi mesi non riuscii a dire una sola parola, né trovai la forza di scrivere, perché se l’avessi fatto, le avrei probabilmente scritto una lettera d’addio, ed io non ero pronta a lasciarla andare. Nonna Iris morì in un caldo pomeriggio d’estate mentre le tenevo la mano e speravo che lei riaprisse gli occhi e tutto potesse tornare come prima, alle estati felici alla Caricheria, ad un tempo in cui non c’era spazio per la morte e la sofferenza nella mia mente. Quando ripenso a quel giorno, ricordo di aver avvertito che in quel momento terminava la mia vita da ragazza spensierata e cominciava quella di donna adulta e consapevole delle sofferenze che mi avrebbero aspettata. Nonna Iris è sepolta nel cimitero della Caricheria, come lei voleva, accanto a nonno Pupi. Vado a trovarla di rado e quando lo faccio, come lei mi aveva chiesto, depongo un fiore sulla sua tomba, un iris, mentre le dico che le voglio tanto bene. Perché il vero grande amore di mia nonna sono stata io. In me ha sempre rivisto se stessa tornata bambina ed ha desiderato per me tutte le cose che non aveva avuto per sé: che io imparassi a ballare, che viaggiassi, che amassi l’opera, che adorassi leggere, che potessi studiare, che potessi fare tutto al pari di un uomo, ciò che a lei non era stato concesso. Ed io, senza volerlo intenzionalmente, ho fatto ognuna di queste cose. In tutto ciò che è stato della mia vita fino ad oggi, in me ha sempre vissuto una parte di lei, come un fluido vitale che attraversa lo spazio, il tempo, l’amore, la vita, la morte, i genitori, i figli. A volte guardo mio figlio e vedo nei suoi occhi lo stesso piglio fiero e orgoglioso, la stessa forza, la stessa volontà di non cedere di fronte a nessun dolore della vita. Forse un giorno leggerà questa storia e la tramanderà ai suoi figli. E una parte di ciò che siamo e siamo stati vivrà in eterno. Non scrivevo più da tanto tempo quando decisi di riprendere in mano carta e penna. Le mie mani erano bloccate, come bloccata era la mia mente: dal dolore, dal senso di incapacità, dalla certezza di non valere niente di cui è stata impregnata la prima parte della mia vita. Lei morì e io ricominciai a scrivere. A scrivere ovunque, su pezzi di carta strappati, sui quaderni dell’università, su una vecchia carta da lettere che mi aveva regalato mia madre. Ho scritto qualsiasi cosa, tutto quello che mi passava per la mente, avevo bisogno che ogni emozione venisse fissata sul foglio, prima che la ragione la trasformasse e me la portasse via. Ma non ho mai scritto questa storia. Le parole di Isabel Allende e di Luis Sepulveda hanno permesso a questi stralci di vita di trovare spazio nella mia mente. Più leggevo e più quelle parole mi permettevano di entrare in contatto con la mia anima e di ricordare. “Quando Paula cadde in coma e la vidi prigioniera su un letto, inerte, morendo a poco a poco sotto lo sguardo impotente di noi tutti, mi ritornò in mente il volto di Omaira Sanchez. Mia figlia è rimasta intrappolata nel suo stesso corpo come la bambina nel fango. Solo allora capii perché avevo vissuto per tanti anni pensando a lei, e potei decifrare finalmente il messaggio dei suoi intensi occhi neri: pazienza, coraggio, rassegnazione, dignità davanti alla morte. Se scrivo qualcosa temo che accada, se amo troppo qualcuno tempo di perderlo; eppure non posso smettere di scrivere né di amare” (Isabel Allende). Non posso smettere di scrivere, né di amare. Nella parte più oscura della mia mente e della mia anima la paura che ciò che sento e scrivo non valga niente è rimasta. Essa fa parte di me, forse è quell’angoscia di morte che ha pervaso tutti i lutti dolorosi della mia vita. Perché la mia vita è ancora così, caratterizzata dall’assoluta incapacità di vivere nessun incontro, nessun momento, nessun battito di esistenza con leggerezza. Ogni vita incrociata non è un caso, ogni non decisione è un’occasione mancata che grava sulla mia coscienza, ogni persona di cui sfioro lo sguardo mi riempie di un profondo senso di responsabilità. Eppure questo è ciò che sono: non possiamo essere diversi da come siamo, né fuggire da noi stessi. E se anche non riusciamo ad accettarci realmente, possiamo almeno cercare di riconoscere il buono che affiora tra le mille mancanze della vita. Sento ogni giorno la mancanza di coloro che ho amato, eppure ne avverto la presenza. E in questa eterna contraddizione vivo nella speranza di poterli abbracciare un giorno, in un luogo in cui lo spazio ed il tempo non ci saranno più. E saremo liberi di amarci in eterno per ciò che siamo.