Capitolo 2
Josè Bolivar, il protagonista del romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, si trova faccia a faccia con la ricercata femmina di tigrillo che minacciava, con la sua famelica rabbia vendicatrice, il paese in cui viveva. Quando finalmente si trovano uno di fronte all’altra succede l’imprevedibile: la femmina, invece di assalirlo, lo accompagna dal maschio, ferito a morte dal gringo che aveva dato loro la caccia abusivamente, e che lei aveva a sua volta ucciso nel disperato tentativo di difendere il compagno.
Josè, mosso da un forte sentimento di compassione, pone fine alle sofferenze del tigrillo, anche se sa che questo probabilmente gli costerà la vita perché la femmina, dopo aver pianto la perdita del maschio, non potrà fare altro che volgere le sue mire agli umani che le hanno distrutto l’esistenza. Queste sono le conseguenze del desiderio sconfinato dell’uomo di impadronirsi della terra, di dominare il mondo in maniera incondizionata, di dettare leggi umane anche laddove imperano quelle della natura. Mi ha sempre colpita il rapporto che gli uomini hanno con la morte. Isabel Allende racconta di aver fatto un patto con il nonno materno, il Tata, che, raggiunta una certa età, e dopo essere già sfuggito alla morte, chiede ad Isabel, qualora la vecchiaia o la malattia lo avessero sopraffatto di aiutarlo a morire, perché la morte di solito è lenta e maldestra. Per quanto ci sforziamo di trovare soluzioni alternative, non sempre esiste un modo dignitoso di morire. Nella morte di per se stessa non credo vi sia dignità, ciò che si percepisce è un’interruzione di legami, di emozioni e di eventi che avevano caratterizzato la vita fino a quel momento. Eppure tutti sono alla ricerca dell’eu thanatos, dell’eutanasia, della buona morte. Ma la morte è un attimo, un soffio, un lungo sospiro prima della scalata dall’ultimo rifugio alla vetta. Sarebbe forse importante fare i conti con la consapevolezza di aver vissuto con dignità. La mia storia’ mi ha insegnato che l’amore e la profondità delle relazioni dai quali viene riempita la nostra vita, sono gli stessi che, spesso, riescono a dare significato anche alla morte. Quando nonno Pupi venne colpito dall’ictus, all’ospedale i medici dissero a mio padre che non esistevano cure specifiche e che i danni cerebrali che aveva riportato gli avrebbero permesso di vivere solo pochi mesi, tre, al massimo quattro. Così papà decise di riportarlo a casa: “Se deve morire, almeno che lo faccia nel suo letto, vicino alle persone che gli vogliono bene”, disse. Così la Caricheria venne trasformata in una sorta di reparto a lunga degenza: dappertutto c’erano pannoloni, cateteri per la notte, traversine. Tutta la nostra esistenza, lentamente, si riorganizzò attorno a questo evento e tutti, ciascuno in base alle proprie capacità, fu chiamato a contribuire alle necessità quotidiane. Così mio padre divenne un ottimo infermiere, addetto a tutte le delicate pratiche sanitarie legate all’igiene; nonna Iris, invece, si occupava di cucinare cibi particolarmente morbidi e gustosi, per risvegliare l’appetito e per permettere al nonno di rimettersi in forze; mia madre, in fretta e furia, chiese l’aspettativa dal lavoro perché, in tutto questo trambusto, nessuno si era ricordato che io ero troppo piccola per badare a me stessa, figuriamoci per fare l’infermiera; e, comunque, a mio modo, contribuii a non arrestare la “catena di montaggio” che si era innescata: io, che ero così piccola da non riuscire ancora a stare in piedi senza appoggiarmi al divano o alle sedie, mi abituai fin da subito ad avere un nonno al quale non potevo chiedere di essere presa in braccio, o di portami in bicicletta a vedere le giostre, o di giocare a palla in giardino. Eppure, se ripenso a quegli anni e mi rivedo bambina, non sento la mancanza di ciò che avrei potuto avere e non ho avuto: quei riti che si compivano ogni mattina al risveglio, ogni sera prima di coricarsi, ad ogni pranzo, ad ogni cena, erano diventati la nostra normalità, la mia normalità. Non penso che avrei potuto avere nient’altro oltre a questo. Io credo che papà e nonna la pensassero nello stesso modo: nei quattordici lunghi anni, invece dei tre mesi, in cui nonno Pupi visse con noi, mai nessuno disse e, sono certa, nemmeno pensò, che sarebbe stato meglio per lui andarsene in quel sabato pomeriggio di fine luglio, quando si era accasciato davanti alla stalla. La morte, a casa nostra, non è mai stata una soluzione alla vita. Dopo alcuni mesi dalla malattia di nonno Pupi, mio padre si rese conto che non potevamo continuare a vivere tutti alla Caricheria. Le stanze che avevamo allestito cominciavano ad essere strette per le nostre grandi manovre quotidiane, e ognuno di noi aveva bisogno di uno spazio suo se volevamo che questa convivenza forzata funzionasse al meglio. Così i miei genitori comprarono una casa più grande a Ravenna, dove già abitavano e lavoravano e lì ci trasferimmo tutti. Nessuno ebbe il coraggio di vendere la Caricheria, che da quel momento diventò la nostra residenza estiva. I nonni soffrirono molto per questo trasloco: nonostante comprendessero che le scelte fatte rispecchiavano le loro effettive esigenze, provavano una profonda nostalgia per momenti sereni della loro vita che non sarebbero più tornati. In un vecchio mobile ho conservato alcune fotografie del matrimonio dei miei genitori. Sembrano molto felici. Non avevano niente, nemmeno i fiori. Mia madre diceva sempre che il suo mazzo di fiori finti lo aveva donato alla Madonna e che si era anche un po’ vergognata, perché la Madonna doveva aver pensato che avesse lesinato sull’offerta. Ma davvero non avevano niente e quel mazzo di fiori, in realtà, rappresentava il dono dell’unico ricordo tangibile del matrimonio di mia madre. Ho riso fino alle lacrime leggendo del matrimonio celebrato tra Josè Bolivar e Dolores Otavalo: gli sposi non sapevano nemmeno di essere stati uniti in matrimonio fino a quando, al termine di una festa paesana, le rispettive famiglie avevano deciso che erano formalmente sposati. Nonostante l’irritualità, nessuno dei due ha mai pensato di ribellarsi a questa imposizione, né che il matrimonio, proprio perché non derivante da una reciproca scelta, potesse non considerarsi valido. Da un certo punto di vista il matrimonio, in quel tempo, rappresentava la naturale evoluzione di tutte le frequentazioni che, quando superavano le poche settimane, potevano essere considerati fidanzamenti in piena regola; e, insieme a questo, anche il naturale destino di ogni uomo e di ogni donna adulti. Josè e Dolores non perdono tempo a chiedersi se avrebbero potuto fare altre scelte o avere altre opportunità, né tantomeno si chiedono se questa unione li avrebbe resi felici. D’altra parte, per la mentalità dell’epoca, non era la felicità il cardine delle unioni solide, ma una buona dose di obbedienza e di accondiscendenza. Nonno Pupi chiese a nonna Iris di sposarlo nel settembre del 1941, subito dopo essere stato chiamato alle armi. Si erano conosciuti nel maggio dello stesso anno, ad una festa da ballo alla casa del fascio e, oltre a quel primo incontro, si erano rivisti non più di una decina di volte, e quasi mai da soli. Nonna accettò e, dopo aver ottenuto il permesso di suo padre, sei settimane dopo venne celebrato il matrimonio, con una breve cerimonia in chiesa e un semplice pranzo con i parenti più stretti nel giardino della Caricheria. Non aveva fiori e nemmeno il vestito da sposa, perché in quegli anni così difficili nessuno badava a simili frivolezze. Non aveva nulla, eppure lo ricordava come un giorno molto felice. Alla Caricheria, che diventò la sua nuova casa, in cui avrebbe abitato con mio nonno, i suoi genitori e le sorelle ancora nubili, portò con sé solo una vecchia valigia di cartone dove teneva il suo bene più prezioso: una tovaglia di fiandra dove aveva ricamato le sue iniziali. La conservo ancora gelosamente, nel cassetto della credenza. Una volta le chiesi come aveva potuto sposarsi così in fretta, senza sapere nulla del suo futuro marito e lei mi rispose: “Perché avevo già ventidue anni e poi perché c’è tanto tempo per conoscersi, dopo il matrimonio”. Poco prima che nonno Pupi morisse, ripensando alla sua vita, disse che, se avesse potuto tornare indietro, lo avrebbe sposato di nuovo, per la dolcezza che le aveva sempre dimostrato in quei lunghi cinquantasette anni di vita insieme e che la malattia non aveva affievolito: nonno Pupi amò profondamente nonna Iris fino all’ultimo minuto della sua esistenza terrena. E nonna ricambiò sempre quell’amore che l’aveva accompagnata per la maggior parte della sua vita. Più profondo è il dolore e più privata è la ferita (I. Allende). Lo capimmo solo dopo quanto grande fosse stato il loro amore. A volte la quotidianità accentua la fatica, i difetti. Una poesia giapponese parla dell’assenza ma ne parla, paradossalmente, come se fosse una presenza. L’assenza è presente, percepibile, tanto più tangibile quanto più profondo è il legame che ci tiene stretti a coloro che amiamo. Tanto più incarnata dentro di noi quanto grande è il nostro desiderio di continuare a sentire, a vedere, a toccare chi non c’è più. Si sono amati molto. Nonna Iris non ha più parlato dell’assenza di nonno, perché era riuscita a trasformarla in una presenza dentro di lei. (continua)