Nello scorso articolo abbiamo varcato la difficile soglia del Postumanesimo. Questa filosofia ci chiede di cambiare radicalmente di prospettiva, di spostare l’attenzione da noi stessi come accentratori di significati, di parole e di azioni verso un mondo aperto in cui i riferimenti non vengono smarriti nell’infinità dell’oggettuale, ma sono moltiplicati nelle armonie di molteplici soggettività. È una scelta epistemologica e insieme una scelta etica, che si arricchisce in relazioni virtuose quanto più perde in strutture fisse, in identità definite, in interpretazioni unidirezionali. Scopriamo così di vivere in un universo di sistemi molteplici e vari che interagiscono e comunicano, ove ogni più piccola azione risuona e rintocca in modi inediti attraverso le reti di relazioni cui si intrecciano, causando effetti giganteschi oppure svanendo come le increspature nell’acqua. Ogni cosa è un sistema e si comporta come tale: le relazioni armoniche e virtuose calibrate equamente sui soggetti che ne fanno parte sono omeostatiche, funzionali al mantenimento in vita e all’evoluzione dei medesimi attori; quelle negative, non equilibrate, contribuiscono ad accrescere le situazioni di disequilibrio, di svantaggio, di vulnerabilità. Ciò ci porta al secondo modello filosofico cui abbiamo fatto menzione: l’Ecofemminismo, un movimento nato negli anni ’60 con l’obiettivo di indagare il sistema di rinforzo negativo che storicamente connette il sessimo e altre due forti espressioni del dominio di una società occidentale maschilista: la discriminazione degli animali non-umani e lo sfruttamento dell’ambiente e delle risorse naturali. I tre fenomeni sono visti dalle rappresentati e dai rappresentati di tale indirizzo filosofico come così interconnessi – storicamente, concettualmente, linguisticamente, simbolicamente, socialmente – da non poter essere adeguatamente affrontati e compresi se non come un unico problema della storia della civiltà occidentale e delle strutture patriarcali delle società occidentali contemporanee. Per la storica della scienza Carolyn Merchant – nel suo famoso saggio La morte della natura (1) – è il meccanicismo, figlio della rivoluzione scientifica, che scalzando il vecchio organicismo ha fornito un sistema di rappresentazione della natura che ha posto le basi per un depauperamento sistematico delle risorse della Terra, unitamente tanto a una visione degli animali non-umani come di macchine guidate solamente da impulsi, prive di autocoscienza, di capacità cognitive e soprattutto di emozioni, quanto una serie di abusi compiuti da parte del potere patriarcale ai danni delle componenti più deboli delle società umane. Da “madre benevola di tutte le creature”, dedita a provvedere ai bisogni degli esseri umani, dunque, nel corso del XVII secolo la natura è divenuta materia inerte e disordinata su cui imporre l’ordine di una nuova fonte di benessere: il progresso tecnologico. Questa “morte della natura”, schiacciata dai dettami degli interessi economici, ha fatto sì che la “collaborazione” venisse soppiantata dal “dominio”: delle risorse naturali, degli animali non-umani, dei gruppi sociali non direttamente coinvolti nella corsa al progresso, tra cui in modo particolare il genere femminile, storicamente associato per analogia con la “Madre Terra”. Come sottolinea Merchant, le ragioni forti proposte dalla nuova oggettività scientifica con Galilei, Cartesio, Newton e Bacone ben rispondevano al bisogno di solidità e prevedibilità del periodo storico, così come la sottomissione e la subordinazione dal punto di vista sociale; e sebbene oggi tale visione meccanicistica sia scientificamente superata, essa continua a condizionare – sia pur indirettamente – la coscienza comune. Per la filosofa e attivista Carol Adams, analogamente, esiste un fondamento comune ben radicato nell’evoluzione sociale e culturale umana che connette lo sfruttamento e la violenza perpetrati nei confronti degli animali non-umani e le varie forme di oppressione che gli uomini hanno esercitato sulle donne nel corso dei secoli. Nel libro The Sexual Politics of Meat (2), l’autrice evidenza come il concetto di “corpo consumabile” accomuni fortemente, all’interno della percezione comune, gli animali non-umani e le donne. Concentrandosi soprattutto sulle implicazioni che una simile percezione ha su attività quali la macellazione e lo stupro, Adams rivela come questa analogia ricorra frequentemente in immagini, pubblicità, menù e articoli nei quali il corpo femminile viene usato per attrarre i consumatori di carne. Ciò che permette la riduzione dei corpi femminili e di quelli degli animali non-umani a meri “fornitori di piacere” è il concetto di “referente assente”. L’autrice spiega tale concetto attraverso un processo – di cui sia gli animali non-umani sia le donne sono vittime – scandito da tre momenti che si realizzano sia fattualmente sia metaforicamente: l'”oggettificazione”, la “frammentazione” e il “consumo”. Attraverso l'”oggettificazione”, l’oppressore può vedere la propria vittima non più come individuo, ma come oggetto – e quindi trattarla come tale. La “frammentazione” opera non solo come smembramento letterale di un corpo, ma anche come mutazione ontologica, perché – nella “catena di smontaggio” dei macelli – bovini, equini, suini, ovicaprini, conigli, polli vengono concettualizzati con termini differenti, come “fornitori di proteine”, e vengono chiamati secondo i tagli di carne. Infine, le parti frammentate dell’animale possono essere “consumate”. Dunque, se in un sistema di relazioni caratterizzato dalla supremazia maschile, donne, animali non-umani e ambiente possono essere visti come categorie accomunate da tali forme di oppressione, violenza e sfruttamento, allora l’imperativo dell’Ecofemminismo è di uscire fuori dalla trappola patriarcale e di ripensare all’immagine di sé e dei rapporti con il mondo naturale secondo modelli alternativi a quelli dominanti. Come scrive, infatti, nel 1975 Rosemary Radford Ruether: le donne devono rendersi conto che per loro non ci può essere liberazione né ci può essere soluzione alla crisi ecologica all’interno di una società il cui modello fondamentale di relazioni è quello del dominio. Esse devono unire le rivendicazioni del movimento femminile con quelle del movimento ambientalista per proporre una radicale riorganizzazione delle relazioni socioeconomiche fondamentali e rivedere i valori della moderna società industriale. (3) Secondo Karen J. Warren e Val Plumwood, due tra le maggiori esponenti dell’Ecofemminismo, però, i problemi che accomunano femminismo, animalismo e ambientalismo devono necessariamente essere allargati – in senso multiculturale e multisociale – a tutti i rapporti di subordinazione che la società patriarcale sorregge e giustifica tramite la propria logica del dominio e della colonizzazione: non solo quelli gemellari nei confronti delle donne, degli animali non-umani e della natura, ma anche fenomeni quali il razzismo, l’etnocentrismo, l’imperialismo, l’autoritarismo, il paternalismo (4). Seppure con differenze, entrambe le autrici sostengono la necessità di modificare radicalmente il paradigma di pensiero della cultura occidentale, l’impianto concettuale che sostiene l’organizzazione patriarcale del dominio; e, in tale senso, le loro riflessioni ruotano attorno a tre proposte fondamentali:

1) Andare oltre i dualismi gerarchici della società androcentrica. Ogni polarizzazione dualistica implicita nelle architetture concettuali della società occidentale porta con sé, da Platone fino a Cartesio e al meccanicismo, una visione insufficiente della realtà. Cultura-natura, mente-corpo, maschile-femminile, padrone-schiavo, umanità-animalità, ragione-emozione, libertà-necessità, civilizzato-primitivo, soggetto-oggetto, identità-alterità, ciascuna frattura e contrapposizione nega i legami di interdipendenza e naturalizza invece le gerarchie che istituisce, a giustificazione della “logica del dominio e della colonizzazione”, matrice di ogni forma di oppressione, abuso e sfruttamento. Come è possibile vedere, nella lista dei dualismi sono presenti contrapposizioni che contengono implicitamente un polo “positivo” e uno “negativo”, un polo “forte” e uno “debole”, in un modo che va al di là del semplicemente concettuale: alla supremazia dei primi termini dei rapporti antitetici sui secondi è sempre associata una forma di “predominio” che si concretizza socialmente in sessismi, razzismi, paternalismi, ma che – in un senso più radicale – riguarda soprattutto il primato ontologico e morale che l’essere umano, in quanto dotato di razionalità, spiritualità, libertà, vanta nei confronti della natura e degli altri animali. Per di più, storicamente, l’attribuzione di inferiorità a determinate categorie di umani – donne, selvaggi, neri, bambini – si è avvalsa dell’equiparazione all’animale e al naturale, per cui discriminazioni e ingiustizie sono state possibili proprio grazie a questa scala della natura, caposaldo della visione antropocentrica.

2) Accogliere una concezione relazionale della realtà che valorizzi le differenze senza annullarle. Al fine di superare questa “scissione della realtà”, di smentire questo sogno di superiorità dell’essere umano-bianco-forte-ricco-bellooccidentale, Warren e Plumwood propongono di abbandonare una visione egoistica del Sé, di abbandonare un individualismo astratto che esclude e nega l’importanza che le relazioni con il mondo non-umano hanno nel costruire l’identità umana, a favore di una concezione relazione dell’individualità. Il Sé viene qui concepito come profondamente relazionale, caratterizzato da un processo continuo di trasformazione e riconoscimento: trasformazione interattiva con ciò che, in quanto Altro-da-Sé, pone inevitabilmente dei limiti al Sé e alla sua volontà; e riconoscimento dell’alterità dell’Altro-da-Sé come qualcosa di simile e diverso dal Sé. Accogliere questa idea di un Sé relazionale implica, per Plumwood e Warren, il rifiutare la separazione tra sessi, classi e razze diverse di esseri umani, così come quella tra l’umanità e la natura, preservando la continuità e le differenze tra le persone e tra le persone e l’ambiente.

3) Sviluppare un’etica simpatetica della cura. Favorire il superamento dei dualismi gerarchici della cultura occidentale mediante la costruzione di una nuova identità relazionale rappresenta la vera chiave di volta per giungere a una nuova etica, fondata sull’empatia, l’amicizia, la cura e la custodia verso ciò che è “Altro-da-Sé”. La proposta di Warren e Plumwood, e di tutto il movimento filosofico ecofemminista, dunque, è di dare forma ed espressione a un’etica simpatetica della cura, che ponga l’accento sulle relazioni, sulle differenze, sugli atteggiamenti simpatetici, e che quindi sia volta a perseguire fini che includano intrinsecamente anche la prosperità degli Altri, siano essi persone, animali non-umani o altri enti naturali.

  • Cfr. Carolyn Merchant, La morte della natura: le donne, l’ecologia e la rivoluzione scientifica, Milano, Garzanti, 1988.
  • Cfr. Carol J. Adams, The sexual politics of meat: a feminist-vegetarian critical theory, Polity press, Cambridge, 1990.
  • Rosemary R. Ruether, New Woman/New Earth, Seabury Press, New York, 1974, p. 204.
  • Cfr. Karen J. Warren, Le promesse dell’ecofemminismo, in R. Peverelli (a cura di), Valori selvaggi. L’etica ambioentale nella filosofia americana e australiana, Medusa, Milano, 2005, pp. 243-286;  Val Plumwood, Feminism and the Mastery of Nature, Routledge, London-New York, 1993.