La partecipazione delle persone che si rivolgono ai servizi sociali e sociosanitari, chiamate nel tempo in diversi modi a seconda anche della connotazione che si voleva dare alla loro posizione e al loro coinvolgimento più o meno attivo (diretti interessati, utenti, beneficiari, destinatari, cittadini, clienti) è da sempre alla base del processo di aiuto dell’assistente sociale[1], in quanto presupposto della contitolarità del progetto, degli interventi posti in essere e della condivisione delle responsabilità nel perseguimento degli obiettivi individuati insieme al professionista. La partecipazione delle persone, oggi definite “esperte per esperienza”, riconosciute come le uniche in grado di portare e rappresentare al meglio il loro vissuto di bisogno e le loro risorse, è ritenuto ormai requisito di sostenibilità anche nella progettazione e nella valutazione degli interventi sociali. L’assistente sociale è quindi sollecitato sempre più ad affinare competenze e strumenti per coinvolgere le persone e la comunità nell’analisi del bisogno, con l’obiettivo di individuare e tradurre la domanda sociale in domanda politica ai fini di una programmazione del sistema di risposte quanto più rispondente alle istanze sociali. La necessità di tale coinvolgimento trova legittimazione da un lato nel perseguimento dell’empowerment dei diretti interessati, inteso come accompagnamento al raggiungimento della capacità di avere voce in capitolo nelle questioni che li riguardano, dall’altro nella corrispondente funzione di advocay dell’assistente sociale chiamato ad impegnarsi per rendere realmente esigibili i diritti delle persone.
A fronte di questa consapevolezza della necessità di garantire una partecipazione, quanto più sostanziale, degli “esperti per esperienza” non solo nel processo di aiuto, ma anche nella programmazione, progettazione e valutazione degli interventi sociali, resta invece ancora occasionale il loro coinvolgimento, in qualità di testimoni privilegiati, nei percorsi di formazione degli assistenti sociali. Nelle università e nei percorsi di formazione professionale continua, l’inclusione di chi sta vivendo o ha vissuto l’intervento dei servizi sociali e sociosanitari è prassi rara. Spesso vengono addotte ragioni riferite alla reperibilità (“ormai non sono più seguiti, come li rintraccio?”), alla privacy, alla vulnerabilità e fragilità connesse alla delicatezza dei temi trattati, a volte, con sincerità, vengono espressi timori rispetto a sentimenti di ostilità nei confronti del professionista (“non sarebbe certo contento di rivedermi e di raccontare la sua esperienza”) o viene apertamente espresso il timore di mettersi in gioco, di affrontare le inevitabili emozioni che quell’incontro comporterebbe e ancor più la preoccupazione di doverle condividere e significare insieme a degli studenti che intendono affacciarsi alla professione (“saranno pronti? Che domande faranno?”). Nell’esperienza di chi scrive, si è rivelato di grande impatto formativo il generoso apporto dato, più volentieri di quanto non si pensi, dalle persone in carico ai servizi sociali ai percorsi universitari di orientamento al tirocinio professionale. Riferimento fondamentale sul tema delle emozioni nel servizio sociale è il libro di Alessandro Sicora (2021)[2]. Prima di imparare a gestire le emozioni è necessario riconoscerle, accoglierle e avviare una riflessione profonda che le renda strumento nell’agire professionale. Non solo in occasione della supervisione professionale, ma anche nell’auspicabile formazione ai supervisori di tirocinio si dovrebbe dare più spazio ai vissuti di rabbia, gioia, disgusto, paura, tristezza … che l’incontro con l’altro suscita in noi e rappresentare l’importanza di saperli condividere e discutere con le persone che stiamo formando e accompagnando alla professione. Nella relazione tra supervisore e tirocinante queste emozioni dovrebbero trovare spazio, sia riguardo alla relazione tra loro, sia riguardo alla relazione del professionista/tirocinante con i colleghi e le persone che si vorrebbero aiutare. Nei percorsi di orientamento ed avvio al tirocinio spesso ci si limita a rappresentare una “tassonomia” dei servizi sociali e sociosanitari, a dare delucidazioni sui diversi contesti organizzativi pubblici, privati e di privato sociale e sui loro “target” di riferimento. A parere di chi scrive, l’università dovrebbe essere ancor più un luogo dove promuovere, nei corsi di laurea in servizio sociale, l’incontro tra gli aspiranti assistenti sociali e gli “esperti per esperienza” che vivono i servizi in cui loro un giorno vorrebbero lavorare. Un incontro certamente valorizzante per tutti gli interlocutori. Dalle emozioni e dalle esperienze narrate, gli studenti possono sperimentarsi nell’incontro con l’altro, riflettere e ridefinire le loro aspettative di ruolo rispetto alla professione, confrontarsi con i loro limiti e con i loro timori, orientarsi rispetto ai possibili ambiti di svolgimento del tirocinio, imparare ad accogliere e a prendere in considerazione le emozioni e le esperienze degli altri per costruire significati e progetti comuni, comprendere che dalle persone che aiutiamo abbiamo molto da imparare non solo in merito alle risposte da individuare, e soprattutto, forse, appassionarsi al nostro lavoro.
Angela Roselli, assistente sociale specialista, giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Roma
[1] CNOAS, 2020, Codice Deontologico dell’Assistente Sociale.
[2] Sicora, A., (2021), Emozioni nel servizio sociale. Strumenti per riflettere e agire, Carocci, Roma.