A pochi giorni dalla chiusura a Pennabilli della Scuola estiva di comunità “A come comunità, C come accoglienza” emozioni, suggestioni e competenze acquisite prendono la forma dei ricordi e degli apprendimenti e restituiscono il valore di quanto vissuto insieme in un contesto affettivamente coinvolgente.
Abbiamo chiesto alla prof.ssa Paola Bastianoni, docente di psicologia dinamica e clinica presso l’Università degli Studi di Ferrara, ideatrice e direttrice della Scuola di Comunità, di raccontarci il lavoro svolto insieme ad un’equipe eccezionale – Michalis Traitisis, pedagogo e regista teatrale; Alessandro Fucili, responsabile C.E.I.S di Ancona; Marilena Moretti, psicoterapeuta; Emanuele Ortu, narratore e formatore- nei quattro giorni di intensa attività della Scuola, partendo dall’inizio: dalla scelta del luogo in cui realizzarla fino al momento dei saluti con i partecipanti, che ha segnato la chiusura di un’ esperienza che per la sua intensità è stata definita e vissuta come “un’ unica grande e piena giornata”
“Un’ambiente autenticamente accogliente è vicino a tutte le sensibilità, le culture, le storie personali-spiega la prof.ssa Paola Bastianoni-ed è stato questo il presupposto- l’immediatezza dell’incontro con i luoghi e con l’altro- da cui siamo partiti per costruire insieme la nostra scuola:ogni individuo ha una sua originalità che solo se riconosciuta e accettata non si trasforma in un ostacolo nelle relazioni”
“Tenendo conto di tale pensiero, la scelta di Pennabilli come sede di svolgimento della scuola non è stata casuale- continua la prof.ssa Bastianoni”- i due castelli di Penna e di Billi costituirono per anni due comunità distinte e rivali, finché, nel 1300, divenuti liberi comuni, per volontà popolare, decisero di fondersi. Il patto fu sancito presso quella che fu poi denominata “Pietra della pace” interrata nei pressi dell’attuale fontana della piazza principale del paese. L’unione urbanistica dei due nuclei castellani portò all’ampliamento urbanistico e l’allargamento delle mura e allo sviluppo di un più fiorente mercato. Simbolicamente, anticipando gli elementi cardini della psicologia sociale e riconoscendo i danni della rivalità e i benefici di una pacifica convivenza, gli abitanti di Pennabilli riuscirono a superare il conflitto a favore del raggiungimento del bene comune.
La storia di Pennabilli ci ha condotto lungo la linea del tempo all’incontro con personaggi attuali significativi : abbiamo incontrato Gianni, il famoso Gianni dello spot Unieuro, (Gianni, l’ottimismo è il sale della vita!”) che conosce ogni singola pietra di questi luoghi, ogni singola ristrutturazione e ogni individuo che si aggiri per queste vicoli, Gigi Mattei ,presidente dell’Associazione Tonino Guerra, e Lora Guerra, eredi della tradizione orale del poeta, organizzatori di eventi e progetti per rilanciare il territorio, con l’intento comune di creare un connettivo che riduca gli allontanamenti, soprattutto di giovani in cerca di lavoro, incrementando le attività turistiche.
Pennabilli è una comunità che continua a vivere nel tempo.
Muovendo proprio dal concetto di continuità, la scuola si è incentrata ,dal punto di vista dei contenuti, nello specifico sul modello integrato di formazione e di supervisione che garantisce, appunto, il funzionamento nel tempo della comunità per minori come Ambiente terapeutico globale (ATG) monitorando in supervisione l’ organizzazione quotidiana, le attività e gli interventi rivolti ai minori accolti e ai loro contesti di vita, ed in formazione garantendo spazio al riconoscimento e all’ analisi dei vissuti degli educatori, dei sistemi di alleanze reali e simbolici e dei modelli culturali di intervento interiorizzati. Nel setting integrato di formazione e supervisione il duplice lavoro di sostegno/contenimento/restituzione degli agiti disfunzionali all’équipe educativa e di monitoraggio/orientamento sui casi consente di integrare i due diversi livelli di lavoro e di intervento sull’èquipe demandando il primo (sostegno/supporto) alla formazione in modo da consentire agli educatori di pervenire alla consapevolezza di quanto il proprio universo interno caratterizzato dai vissuti emotivi soggettivi relativi alla propria esperienza relazionale possa veicolare risposte ed interventi educativi che spesso rimandano ai propri conflitti non risolti piuttosto che alla domanda di aiuto dell’altro. In questo senso l’alleanza di lavoro del formatore con l’équipe educativa attraverso la comprensione e la restituzione dei vissuti degli educatori consente al supervisore di lavorare sui casi con un setting specifico dove gli educatori possano avere energie e motivazioni sufficienti a comprendere i bisogni dei minori, sostenuti dal supervisore nel difficile compito dell’analisi della domanda e dell’individuazione di conseguenti risposte ed interventi educativi mirati .
All’interno della scuola è stato possibile sperimentare fattivamente tale costruzione teorica alla base di ogni intervento di comunità “sufficientemente buono”, attraverso due momenti fondamentali
Per prima cosa, ogni aspetto dello spazio fisico è stata pensato e combinato allo scopo di realizzare un’accoglienza individualizzata, tenendo conto delle singole soggettività in un’ottica facilitante l’incontro con l’altro: una tovaglietta personalizzata, a segnare il posto di ciascuno a tavola, ma che ad ogni colazione, pranzo e cena veniva ricollocata casualmente in modo da consentire lo scambio e la comunicazione tra tutti; una borsa di tela, anch’essa personalizzata, per contenere materiale utile durante le nostre attività, realizzata a mano da qualcuno che, senza conoscere personalmente ciascuno dei partecipanti, ha formulato un pensiero sul destinatario della borsa e ha prodotto un lavoro che ha richiesto tempo ed energia, con il solo obiettivo di dedicare un parte di se stesso all’ altro; il recupero di scarti di piantine con cui abbiamo realizzato delle composizioni floreali posizionate in ciascuna camera, con un messaggio inequivocabile: quello che può essere considerato uno scarto, può essere nuovamente vitale e rigenererai con nuova linfa, se esiste una tensione a ricomporne i pezzi e collocarlo in uno spazio su misura; il cibo preparato in maniera semplice ma invitante e secondo tradizione, prestando attenzione a ridurre gli sprechi e alle esigenze alimentari di ciascuno, in una dimensione di cura “casalinga”
Il secondo momento ha permesso di realizzare l’incontro con l’altro da sé, con la diversità, elemento fondante di tutti i processi di accoglienza
Di nuovo la storia dei luoghi del Montefeltro ci ha regalato una cornice affascinante nel suo dialogo ininterrotto tra Occidente e Oriente occidente : Pennabilli è stretta da un forte legame con il Tibet, che risale al XVIII secolo, quando padre Orazio Olivieri partì dalla città dei Malatesta per fondare una Missione cattolica a Lhasa.
Nel 1994, il XIV Dalai Lama, visitò Pennabilli per celebrare il 250º anniversario della morte del missionario: in quell’occasione scoprì una lapide sulla facciata della casa natale del frate cappuccino.
Nel 2005 si ebbe una seconda visita del Dalai Lama, durante la quale fu inaugurata una struttura metallica a ricordo del missionario pennese Orazio: una campana affiancata a tre mulini di preghiera tibetani. La campana è il calco della campana originale della missione di Padre Orazio in Tibet. Secondo la religione tibetana, il gesto di far ruotare un mulino di preghiera assume il significato di un’invocazione rivolta verso il cielo, proprio come il suono di una campana. E mentre i segni del Tibet dialogano con il cielo pennese, le parole di Tonino Guerra ci hanno consentito di entrare in contatto con la terra e con i cicli della natura, trasformando una soggettività poetica ben distinta in un canto corale, chiara espressione di una collettività coesa
In questo contesto dove ogni voce può risuonare apertamente all’interno di un coro, si è realizzato l’incontro dei partecipanti con l’equipe diversificata e con i diversi laboratori proposti.
All’ interno del laboratorio teatrale, assimilabile ad un processo di formazione attraverso il corpo in movimento, condotto dal regista e pedagogo teatrale Michalis Traitsis, è stato possibile, attraverso attività non invasive, entrare in contatto con le proprie emozioni più intime, con il dolore e la sofferenza, ma anche con il piacere e il divertimento di esprimere se stessi senza essere valutati per la proprie performance.
Abbiamo poi lavorato nel laboratorio esperienziale della supervisione attraverso la tecnica dello sceneggiato delle comunità: in tale spazio protetto, è stato possibile rappresentare i propri vissuti di accoglienza e con la conduzione del supervisore è stato possibile riflettere sulle dimensioni più protettive dei propri modelli relazionali interiorizzati ma anche su processi più pericolosi che potrebbero attivarsi inconsapevolmente. Attraverso la condivisione è stato possibile riflettere sulla possibilità di ridurre l’effetto istituzionalizzante negli agiti quotidiani, consentendo di attivare una dimensione più riflessiva su se stessi, riparativa e riequilibrante
Una pausa riflessiva ed un momento catartico molto forte si è realizzato sul colle dove sono collocate le campane tibetane: ciascun partecipante è stato invitato a scrivere su una foglia un pensiero sul proprio vissuto rispetto all’ accoglienza e alla comunità, in uno spazio mistico di riflessione, lasciando che il proprio pensiero fosse letto nel più completo anonimato da un altro partecipante, e lasciando la foglia e il peso delle rivelazioni più profonde appeso ad un filo, libere di volare con il vento, in un luogo sconosciuto in un tempo ignoto.
Ancora un momento per prendere contatto con se tessi e con l’alterità si è realizzato durante il laboratorio delle maschere: uno spazio per gli adulti in cui poter immaginare un ragazzo, reale o immaginario, incontrato in comunità. In alcuni casi è stata pregnante la riattivazione del proprio sé bambino, che necessita di essere preso per mano e di essere ascoltato, per essere in grado di accompagnare e di ascoltare l’altro.
La scuola si è conclusa con un gesto evocativo di ogni separazione: la stesura di una lettera, di una frase, un pensiero da spedire in maniera casuale in buste preindirizzate a ciascun partecipante, inclusi i responsabili dell’ostello e i conduttori dei laboratori; un messaggio scritto utile a rappresentare simbolicamente una sorta “testamento affettivo”: quando la separazione riattiva il dolore di una separazione mai risolta, in un giorno qualsiasi di un tempo qualsiasi, sarà possibile riprendere tra le mai un pensiero scritto e rivivere l’incanto e la magia legata all’ affettività della ri-narrazione di una storia vissuta insieme.
Il pensiero di chiusura è lo stesso con cui da sempre predisponiamo e realizziamo il percorso nelle comunità con i nostri bambini e ragazzi: donare loro un momento autentico di individualità che aiuti, nel tempo, a riconoscersi, ripensarsi, ritrovarsi.”