Sotto un profilo strettamente giuridico, ha probabilmente ragione Chiara Saraceno (nell’articolo in allegato) quando dice che “prima di un diritto dei genitori a che il figlio/a non venga collocato in affidamento presso famiglie di etnia e/o religione diversa, è un diritto del bambino alla propria continuità identitaria, che non può essere interrotta proprio mentre si lavora per farlo stare meglio”.
La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, approvata dalle Nazioni Unite nel 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991, è a questo proposito molto chiara. All’art. 8 si legge, infatti:
1. Gli Stati parti s’impegnano a rispettare il diritto del fanciullo di conservare la propria identità nazionalità, nome e relazioni familiari, quali riconosciuti per legge, senza interferenze illegali.
2. Se il fanciullo viene illegalmente privato degli elementi costitutivi della sua identità o di alcuni di essi gli Stati parti forniranno adeguata assistenza e tutela affinché venga sollecitamente ristabilita.
Da questo punto di vista, la questione può essere formalmente rimessa alla decisione di un giudice. Ma questa battaglia rischia, come si evince dal tenore argomentativo degli articoli, di trasformarsi essenzialmente in un contenzioso di principio, in un dibattito in cui la posta in gioco è la definizione o il riconoscimento “per nascita” di un’appartenenza culturale, identitaria. Si rischia di limitarsi in questo modo a evocare un’identità teorica e ideologica definita da categorie tanto comuni quante incerte nei loro significati come “cultura”, “etnia” o “valori”. Dovremmo invece parlare qui di un’identità molto più essenziale, primordiale e necessaria che consente ad ognuno di noi di rispondere alle domande “chi sono io” e “chi siamo noi”. La questione dell’affido omoculturale o eteroculturale potrebbe essere una questione di lana caprina se la relazione di cura fosse basata sul principio del riconoscimento dell’altro, della sua specificità, della legittimità del suo stare al mondo anche se “diverso” da me o da noi. Perché bambini di origine musulmana dovrebbero mettersi a fare il segno della croce nella nuova famiglia? Ma anche perché no? Ma allora vorrebbe dire che potremmo dare in affidamento un bambino “nostrano” e cristiano a una famiglia di fede musulmana e che questo potrebbe imparare a fare la preghiera del venerdì. Perché si e perché no? Posta in questi termini, la questione non può che trovare risposte di tipo ideologico e valoriale. Presupporrebbe che ci si può prendere cura dell’altro solo quando l’altro è riconosciuto come “identico”. Ma questo vuole anche dire che tutto quello che appartiene all’esperienza precedente è “meno buono”, “meno giusto”, possibilmente da negare, da dimenticare. Ed è proprio questo il punto: qualsiasi figliazione, sia essa con i genitori naturali, adottivi o affidatari, dovrebbe essere in grado di garantire l’affigliazione, vale a dire il legame del figlio con il suo “gruppo di origine”, con i “suoi antenati”. Ogni figlio deve crescere avendo la possibilità di ascriversi nella sua e nelle sue genealogie. È una questione di principio? No, è una questione di bisogno fondamentale per garantire uno sviluppo e una crescita funzionale, adeguata. È un vero peccato che gli psicologi non siano intervenuti nel dibattito perché loro conoscono molto bene le sofferenze che si generano dalle cesure genealogiche o dai dinieghi delle biografie familiari. Nel suo libro “Les âmes errantes”, Tobie Nathan (2017) ci illustra bene la sofferenza di quei ragazzi e ragazze che non hanno avuto accesso ai “propri antenati”. Quelle che lui chiama “Anime Erranti” non sono giovani “sradicati”, ma giovani “senza radici”, perché per una ragione o per un’altra (migrazione, affidamento, adozione o genitori fragili) sono stati tagliati fuori dalla storia della loro origine: perché la storia non era raccontabile, perché c’era da vergognarsi, perché per essere “accettati” era necessario rinnegarla … Una figliazione difficile, che comporta la sospensione dei rapporti con i genitori naturali e che richiede una fatica di ri-figliazione con sconosciuti e un’affigliazione che rischia di non essere permessa (non importa chi tu sia stato fino ad ora, ora sei come noi) sono ingredienti che lo stesso Nathan definisce “cocktail esplosivo”. Queste anime erranti sono alla ricerca di valori sicuri, di radici forti alle quali potersi ancorare, sono gli adepti ideali di qualsiasi ideologia oltranzista: tanto più il sistema di pensiero sarà rigido e totalizzante, vale a dire che darà indicazione sui diversi aspetti dell’esistenza, quanto più questo sistema rappresenterà una terra di approdo per questi ragazzi. Quindi? Quindi, occorre forse accompagnare le famiglie che hanno modalità di cura e di educazione che non sono più riconosciute da noi come in grado di garantire rispetto, dignità e tutela ai figli. Non dimentichiamo che il non riconoscere le punizioni fisiche, la restrizione di libertà e di autonomie come pratiche educative efficaci è una conquista molto recente anche nella nostra storia. Da questo punto di vista è una questione che possiamo condividere con queste famiglie. La ridefinizione delle pratiche educative di intere comunità non può essere ridotta a una mera questione di “ordine pubblico”. Ma occorre anche accompagnare i servizi in una riflessione sui contesti esistenziali che si vengono a creare quando lo “spostamento” di un bambino, di qualsiasi bambini non solo dei bambini egiziani, comporta un diniego della sua vita precedente: la “cura” in alcuni casi potrebbe rivelarsi, nel tempo, più dannosa del male …
Il bambino e lidentità da salvare – C. Saraceno.pdf
La rabbia delle famiglie arabe. Non date i nostri figli ai cristiani.pdf
Nadia Monacelli, 9 Maggio 2018