Ti sfioro delicatamente la pelle, ormai tutta coperta di ustioni. Vorrei darti un po’ di sollievo, ma non è rimasto niente. Solo qualche benda e un po’ d’acqua. Troppo poco per curare le ferite sul tuo corpo. Per quelle dell’anima, invece, non c’è rimedio. Spero solo che la mia vicinanza possa farti sentire che, quando non si ha niente, l’amore è l’unica risposta possibile. Ogni volta che sentiamo un rumore sopra le nostre teste, ci stringiamo forte, perché potrebbe essere l’ultimo abbraccio. Ormai ti sono rimasta solo io di tutti i nostri fratelli. E tu sei l’unico fratello che mi è rimasto, il più speciale di tutti, fin da quando sei nato. Quando ti hanno messo fra le mie braccia, portavi già i segni della tua malattia. Epidermolisi bollosa l’hanno chiamata. Non si cura. Non a Gaza. Non quando le medicine servono per curare le ferite delle bombe. O meglio, le ferite di quelli che riescono a sopravvivere ai bombardamenti. Fino ad ora ce l’abbiamo fatta ed io sono convinta che sia il mio amore ad averci salvato. Le bombe non ci hanno ancora sfiorato. Eppure il tuo corpo sembra uscito dal peggiore degli incendi. Sto scrivendo la nostra storia. Sui pezzi di carta che trovo, su tutto quello che non può essere usato per te, per aiutarti a stare meglio. Mi piace pensare che qualcuno un giorno la leggerà e conoscerà la tua vita. La vita di un bambino coraggioso. Un bambino che conosce la fame, la paura, la malattia, ma che, nonostante tutto, non vive solo per se stesso. Ti chiamano il “bambino farfalla”. Ti chiamano così perché la tua pelle ormai si è ridotta ad un velo, sottile, proprio come le ali di una farfalla. Anche a me piace pensarti come ad una farfalla, ma non a causa della tua pelle. Proprio come la farfalla, non ti lasci intimorire dalla tua fragilità. Ma voli. Ti posi sopra ogni cosa, la ammiri, riesci a gioire di tutto ciò che vedi. E da ogni cosa sopra cui ti posi riesci ad estrarre il meglio. E ti nutri, nonostante tutto, di questa bellezza. In questa fatiscente stanza che è più o meno quello che rimane dell’ospedale della nostra città tu, con il tuo sorriso, riesci a dare forza agli altri bambini farfalla come te. Ce ne sono tanti, qui a Gaza. Molti di loro, proprio come noi, hanno perso fratelli e genitori. Anche loro vivono la paura dei bombardamenti, di perdere anche quel poco che hanno. Eppure ci sono momenti in cui la tua malattia arrivo quasi a considerarla una fortuna. Ci permette di essere vicino ad altre persone, di non perdere la nostra umanità, mentre il mondo intorno a noi brucia. Ieri hai rinunciato a metà della tua razione di acqua. L’hai lasciata ad un bambino che piangeva e che aveva appena perso la sua mamma. Tutti devono leggere la tua storia. Perché il mondo sappia che esistono ancora persone capaci di atti d’amore nonostante abbiano tutte le ragioni per chiudersi nel loro dolore, nella loro solitudine. Perché tutti sappiano che non cede all’individualismo chi dovrebbe avere come unica priorità quella di salvare la propria vita, di procurarsi quel poco che è necessario per non morire di fame e di tristezza. Quando ti copro le braccia e le gambe con quelle bende stracciate che contengono un po’ d’acqua ormai calda, ti vedo chiudere gli occhi. E quando ti chiedo a cosa pensi, mi dici che immagini di essere in un letto morbido, che sogni che quelle bende ruvide possano trasformarsi nei morbidi baci di nostra madre. Ti vedo sorridere, a volte sembra proprio che il tuo gioco funzioni. Provo a farlo anche io, ma non mi riesce bene come a te. Forse il mio cuore si è indurito e non lascia spazio ai sogni, all’immaginazione, alla sensazione di benessere. Ma tu ci riesci. E allora ho capito che devo starti vicino ancora, per tutto il tempo che mi verrà concesso. Perché solo tu, farfallina mia, puoi regalarmi ancora la capacità di tornare a sognare.