I profumi, i suoni, i colori: tutto mi era così familiare. Riconoscevo persino quel modo dolce e leggero dell’aria di sfiorarmi la pelle attraverso il sottile scialle di seta. Quel viale buio rischiarato soltanto dalle forti luci del centro mi dava molta sicurezza. Per la prima volta dopo molto tempo mi sentivo a casa. E per la prima volta sentii tutto il peso del lungo viaggio che avevo affrontato nei due giorni precedenti. Sorrisi: tutto era rimasto uguale. Era come se ogni singola casa, ogni albero e ogni via avessero voluto aspettarmi, certi che sarei tornata e che, vedendoli, avrei ricordato. E come avrei potuto dimenticare? Ferma davanti a quell’immenso edificio che un tempo era stata la mia scuola, quell’incrocio travolgente di luci ed ombre, voci e silenzi, mi riportò ad una calda serata di luglio di molti anni prima. Anche quella sera ero davanti alla mia scuola, con lo sguardo rivolto allo stesso portone, con la stessa espressione stanca e allo stesso tempo felice. Solo che, quella sera, non ero sola.
Si chiamava Andrea: aveva la mia età, frequentavamo la stessa scuola, lui l’indirizzo linguistico ed io l’indirizzo tradizionale. Era alto, aveva i capelli scuri e gli occhi più azzurri che io avessi mai visto. L’avevo conosciuto alla festa di compleanno della mia migliore amica ed era stato amore a prima vista. Nonostante fosse più grande di me di soli pochi mesi, sembrava essere molto più maturo: era indipendente, brillante, intelligente… insomma, aveva tutte le qualità per piacere ad una ragazza. Ed io me ne innamorai subito. Uscimmo insieme qualche volta da quella sera, e dopo poche settimane cominciò a presentarmi a tutti come la sua fidanzata. Ricordo ancora quello come l’anno più bello della mia vita. Ero felice, innamorata, credevo di aver trovato il principe azzurro delle favole, la persona che mi avrebbe amata e protetta per tutta la vita. Invece, era solo Andrea. Quell’anno giugno arrivò con una velocità impressionante; gli esami di maturità attendevano sia me che Andrea. Ci eravamo preparati insieme, ed io, forte del sostegno che lui con il suo modo di fare disinvolto aveva saputo darmi, li superai brillantemente. Quella sera per tanto tempo lo aspettai davanti alla scuola: dovevamo incontrarci per festeggiare la consegna dei diplomi; ma non solo, io avevo qualcosa di molto importante da dirgli. Il tempo sembrava non passare mai. Il suo ritardo non era normale e la mia preoccupazione aumentava di attimo in attimo. Quando ormai credevo che non sarebbe più venuto, lo vidi attraversare di corsa la strada per poi fermarsi di fronte a me, con un’espressione strana, quasi come se venendo all’appuntamento avesse voluto farmi un favore. Allontanai dalla testa questi pensieri e lo abbracciai forte: “Credevo che non saresti più venuto. Ho avuto paura che fosse successo qualcosa”.
“Infatti stavo per non venire”. La sua risposta mi colse di sorpresa come una bufera in piena estate. Mi avvicinai a lui: “Andrea ma cosa stai dicendo? Cos’è successo?”
“Vedi Giuliana, voglio essere molto onesto con te. Io non credo che stare ancora insieme sia la cosa giusta per noi. Presto comincerà l’università, i corsi ci terranno molto impegnati, e poi sinceramente credo che la nostra storia non possa durare. Vogliamo cose diverse, non siamo fatti l’uno per l’altra. Mi dispiace, ma credo di aver preso la mia decisione”. Il suono dell’orologio della piazza cadde fra noi come per confermare la sentenza emessa da Andrea. Mi sentivo vittima di uno stupido scherzo. Il ragazzo che aveva pronunciato quelle parole non poteva essere lo stesso col quale avevo trascorso l’anno più importante della mia vita. Quante parole dissi quella sera! E quante parole rimasero nell’aria senza nemmeno sfiorare la sua mente. E quando credetti di essermi umiliata abbastanza, lo guardai voltare lentamente le spalle e andarsene. “Andrea, io…sono incinta”. Ma ormai, lui era già lontano. Rimasi lì, davanti alla scuola, tutta la notte a piangere l’amore che avevo perso, i sogni distrutti, i ricordi cancellati. E solo all’alba, quando un forte senso di nausea mi attanagliò lo stomaco, ricordai per la prima volta il vero motivo per cui avrei dovuto piangere. A parte la favola interrotta, in quel momento non ero più da sola. Aspettavo un bambino. Il figlio di Andrea. Eppure non riuscivo a pensarci. Avevo perso Andrea, che senso poteva avere tutto il resto? Ma dovevo pensarci. Altre dieci volte rifeci il test di gravidanza, e per dieci volte il test risultò positivo. Ero disperata. E odiavo tutto: Andrea, la scuola, gli amici che ci avevano fatto incontrare e, soprattutto, odiavo il bambino. Dicevo a me stessa che era colpa sua se la mia vita era stata rovinata. E poi che responsabilità potevo sentire verso di lui? Suo padre non c’era ed io ero giovane, troppo giovane per sostenere il peso di una gravidanza. Non potevo essere una madre per lui. Io non sapevo badare nemmeno a me stessa, figuriamoci ad un bambino. Quell’esserino non si vedeva nemmeno e già richiedeva tante attenzioni; io non potevo dargliele. Quelli furono per me giorni terribili: giorni di ripensamenti, di pianti e di continua indecisione. Durante la giornata non facevo che sfogarmi con le amiche chiedendo loro consigli che sapevo bene non sarebbero mai state capaci di darmi; di notte mi giravo e rigiravo nel letto incapace di trovare una posizione in grado di farmi addormentare. E più pensavo e cercavo di trovare una soluzione, più i ragionamenti mi portavano ad una sola conclusione: non potevo tenerlo. Per quanto terribile la mia decisione potesse sembrare, era l’unica che mi avrebbe permesso di poter ricominciare da capo e vivere la mia vita come una normale ragazza di diciotto anni. Così, una mattina di settembre, senza troppi ripensamenti presi appuntamento al consultorio dell’ AUSL. Dovevo farlo. Non c’era alternativa. Il giorno in cui era stato fissato l’appuntamento mi preparai con cura, allontanando di tanto in tanto le lacrime che mi riempivano gli occhi. Mancavano più di tre ore all’orario in cui il mio appuntamento con il ginecologo era stato fissato, ma decisi comunque di chiamare un taxi e di farmi accompagnare a destinazione. Appena salii in macchina mi appoggiai ad uno degli sportelli e rivolsi lo sguardo oltre il finestrino. Non avevo voglia di parlare. Volevo solo cercare di stare tranquilla per qualche minuto. Com’ era strano! Negli ultimi mesi mi ero dimenticata del mondo che mi circondava, invece quei pochi minuti di tragitto sembravano volermi far riscoprire la mia città, quasi come se quei soli due mesi fossero stati sufficienti a farmela dimenticare. Improvvisamente mi ritrovai davanti i giardini vicino alla stazione, quelli dove d’estate mia madre mi portava sempre. Lì mi capitava spesso di incontrare le bambine dei Gentili e allora mi fermavo a giocare con loro. Il nostro gioco preferito era la “Famiglia”. Ognuno di noi aveva un ruolo e ci comportavamo come se fossimo davvero una famiglia: Maria ed Elena erano le figlie e Riccardo era il papà. Io volevo sempre fare la mamma. Nonostante le suppliche delle mie amiche di invertire ogni tanto i ruoli, con me non c’era niente da fare: volevo fare la mamma e niente riusciva a farmi cambiare idea. Com’è strano a volte il destino! Da bambina non avrei ceduto il mio ruolo per niente al mondo e da grande, invece, era la stata la prima reazione che avevo avuto. Forse perché quando si è piccoli tutto sembra più facile: la vita ci sembrava fatta solo di quelle poche ore che passavamo a fare quel gioco in cui per di più eravamo liberi di far andare le cose come volevamo noi, anche di fermare il tempo se necessario. Invece, quanto era diversa la vita reale! Davanti al cancello dei giardini una signora camminava tenendo per mano un bambino di pochi anni e per farlo stare tranquillo gli stava raccontando una favola. Quanta tenerezza suscitò in me quella scena! All’improvviso mi ritornò in mente zia Francesca: avevo cinque o sei anni quando mia madre mi disse che presto avrei avuto un cuginetto. Che gioia avevo provato in quel momento! Quella notte non riuscii a dormire eccitata com’ero all’idea che presto avrei avuto un bambino piccolo tutto mio con cui poter giocare e di cui prendermi cura: già lo immaginavo mentre gli davo da mangiare, e poi con lui così piccolo, giocare alla Famiglia sarebbe stato ancora più divertente. Sarebbe diventato figlio mio e di Riccardo assieme a Maria ed Elena. Ricordai il dolore che provai quando un giorno vidi arrivare a casa zia Francesca in lacrime. Io subito le corsi incontro e le chiesi notizie del cuginetto. Lei mi abbracciò forte: “Giuliana, il cuginetto non viene più”. Fu per me un colpo terribile. Ma credo che per zia Francesca ancora più terribile sia stata la mia inevitabile domanda: “Perché zia?”. All’occhiata di rimprovero di mia madre corsi in camera mia dove sfogai tutta la mia rabbia e la mia tristezza. Da quel giorno nessuno parlò più di quel bambino. Come tutte le cose dolorose, venne sotterrato nei ricordi più brutti e poi dimenticato. Anch’io dimenticai. Ma in quel momento il ricordo era molto forte e in pochi secondi tutto il dolore di quei giorni mi invase di nuovo. Come avevo potuto dimenticare? E perché il taxi andava così piano? Ad un semaforo rosso fummo costretti a fermarci. Che strano, eravamo davanti alla casa di Michela. E di nuovo, un’altra ondata di ricordi, questa volta però più recenti. Era stato proprio a casa di Michela che, due mesi prima, avevo fatto il primo test di gravidanza. Quando avevo visto che era risultato positivo, avevo immediatamente abbracciato la mia amica, incapace di contenere la gioia. “Michela, ti rendi conto? Un figlio mio e di Andrea! Devo dirglielo! Ora che ci siamo diplomati, niente può impedirci di sposarci e di avere questo bambino. Lui mi ama, ne sono sicura”. Neanche per un momento avevo pensato di rinunciare a mio figlio. Dal primo momento in cui avevo scoperto di aspettarlo, lo avevo considerato qualcosa di mio. Ed ero stata felice all’idea di diventare mamma. E poi le parole di Andrea. La consapevolezza che non mi amava, che forse non mi aveva mai amata. Improvvisamente il dolore della perdita della persona che amavo aveva trasformato la mia gioia in un problema da risolvere. Quasi come se il bambino che portavo dentro di me non fosse più figlio mio solo perché il ragazzo più immaturo ed egoista della terra mi aveva lasciata. Come avevo potuto dimenticare anche questo? Sospirai forte.
– Signorina, siamo arrivati. –
Mi risvegliai come da un sogno. Ero sempre davanti alla scuola. La stanchezza per il lungo viaggio si faceva sempre più forte. Solo la commozione per i momenti che ero riuscita a rivivere mi dava la forza di fermarmi ancora qualche minuto. Quanti anni erano passati ormai? Più di dieci. Le ultime immagini della mia città erano quelle del taxi fermo davanti all’edificio dell’ AUSL. La voce del taxista risuonava ancora nelle mie orecchie.
Avvolta nel silenzio e nel buio mi sentii tirare la punta dello scialle: “Mamma, dove siamo?”.
“Siamo tornate a casa. Sei contenta, amore mio?”.
Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia, docente del Master