Helen Keller scrisse che “i bambini udenti acquisiscono il linguaggio senza particolare sforzo, raccolgono nel vento le parole che cadono dalle labbra altrui così come sono, con gioia, mentre i bambini sordi devono agguantarle attraverso un processo lento e spesso doloroso. Ma qualunque sia il processo, il risultato è meraviglioso” (1903, p. 21).
Apprendere a parlare e comunicare per un bambino sordocieco è un processo difficile. Come rileva Trisciuzzi, infatti si apprende a parlare quando sussistono tre condizioni: l’aspetto neurologico, quello intellettivo e quello sociale (Trisciuzzi, 1998). L’aspetto neurologico si lega tanto alla maturazione del sistema fonatorio, quanto alla capacità discriminatoria dell’udito. È necessario che sussistano e si organizzino, maturandosi, sia il sistema di regolazione uditivo fonatorio, sia i centri nervosi geneticamente specializzati. È l’udito, difatti, che regola la voce. L’aspetto intellettivo comprende sia la formazione del pensiero simbolico sia quella dell’immagine mentale. Il soggetto che parla e quello che ascolta devono avere sviluppata la capacità di rappresentarsi mentalmente ciò a cui il termine linguistico si riferisce. Questa acquisizione ‘sociale’ del linguaggio permette l’interazione tra individui che usano lo stesso codice linguistico, prerogativa dell’essere umano. Esso è una facoltà innata, ma che rimane latente nei casi di sordità e in assenza di un consorzio di parlanti. Si pensi a questo proposito al fatto che i bambini sordi che possono essere protesizzati iniziano a balbettare solo al momento dell’inserimento della protesi acustica.
Helen Keller è la persona sordocieca più famosa che la storia conosca. La ragazza approda all’Istituto Perkins di Boston, una delle scuole più avanzate ancora oggi in questo campo. Nel cammino di Helen verso la conoscenza, come è risaputo anche per la trasposizione cinematografica (“Anna dei miracoli” di Arthur Penn, 1962), ebbe un ruolo determinante la sua prima insegnante. Teacher, come sempre Helen chiamò Anne Sullivan, aveva un carattere amabile, ma volto alla malinconia. Impegnava tutto il tempo nell’esercizio delle facoltà mentali della sua allieva, sapeva analizzare le difficoltà con chiarezza adamantina, ingaggiava una serie di discussioni dalle quali usciva sempre vittoriosa, era annoiata dai luoghi comuni. I suoi occhi non vedevano bene, ella stessa aveva avuto difficoltà visive in gioventù, in parte risolte con operazioni chirurgiche. Tuttavia allo spettacolo della natura preferiva l’universo letterario, i libri, in modo particolare di poesia e musica, una passione che trasmise ad Helen. Con il movimento delle sue dita, che compitavano le parole sulle mani di Helen, rendeva ogni parola ‘vibrante’ nella mente dell’allieva, restituendole una identità e riconsegnandola ad un mondo che altrimenti non avrebbe potuto usufruire di lei.
Helen così assume la competenza ricettiva della comunicazione, ma si duole di non poter esprimersi a sua volta. Mancava ancora la competenza eiettiva. Si trasferisce dunque a New York, dove frequentò la Wright-Humason School for the Deaf. Qui entrò in contatto con Miss Fuller, un incontro che segnerà una ulteriore tappa della evoluzione delle capacità comunicative della giovane Keller. Miss Fuller guidava la mano di Helen pazientemente sul suo viso perchè ella potesse cogliere i movimenti del volto, delle labbra e della lingua quando emetteva un suono. Così Helen iniziò gradualmente a parlare e, anche se all’inizio il suo eloquio non era completamente intelligibile se non ad un orecchio allenato, la soddisfazione per il rinnovato grado di autonomia nella comunicazione era notevole.
Non avendo alcun residuo uditivo, Helen dovette fare ricorso alla compitazione manuale come via ricettiva dell’apprendimento per tutto il suo percorso di studi, ma con l’emissione della voce potè acquisire una completa autonomia nella componente eiettiva, dal momento che la voce è il tramite universale del linguaggio interumano. Fu la prima persona sorda e cieca ad acquisire un Bachelor of Arts degree. La paziente Miss Anne Sullivan per tutto il tempo le aveva compitato le lezioni universitarie sulla mano e il percorso di studi era stato non privo di difficoltà, ma portato avanti con la consapevolezza di essere una studentessa sui generis. A questo proposito scrive Helen: “La compitazione manuale richiede tempo e fa sorgere delle perplessità che altri non hanno. Ci sono dei giorni in cui l’attenzione maniacale che devo dare ai dettagli mi irrita e il pensiero che io debba trascorrere ore a leggere pochi capitoli, mentre nel mondo esterno altre ragazze stanno ridendo, danzando e cantando, mi rende indisciplinata, ma recupero rapidamente il buon umore e con una risata spazzo via lo sconforto dal cuore. Perchè, dopo tutto, chiunque voglia raggiungere la vera conoscenza deve scalare la Montagna delle Difficoltà per proprio conto e non c’è una via maestra che porti alla vetta, bisogna zigzagare seguendo la propria strada” (Keller, 1903, p. 74).
Tamara Zappaterra, docente del Master
Keller H. (2014). Il silenzio delle conchiglie. Roma: Edizioni e/o (ed. orig., The Story of my Life. J.A. Macy, Cambridge, 1903)
Trisciuzzi L. (1998). Manuale di didattica per l’handicap. Roma-Bari: Laterza.