Siamo in Brianza, negli anni tra il 1996 e il 2012, arco di tempo che corrisponde ai sei – ventidue anni di Margherita, la protagonista del romanzo “Quasi niente sbagliato” di Greta Pavan. Margherita, fin da piccola, ha amato le parole, il loro suono, i loro significati, ma sembra essere l’unica in famiglia con questa dote. Tutti, a partire dai nonni, sono dediti solo al lavoro, anche a più lavori contemporaneamente, senza lasciare spazio alle emozioni e alle narrazioni. Appunto, i nonni ripetono fino allo sfinimento che sono stati loro, con tutte le altre famiglie trasferitesi dal Veneto, a creare la Brianza, così dediti alla fatica, senza badare alla soddisfazione personale e all’investimento su un futuro diverso da quello che sembra già essere scritto. Sentiamo Margherita dire, a sei anni: “se avessi conquistato un mestiere tutto mio, (…) il nonno mi avrebbe riconosciuto del merito. (…) Gli amici del nonno avrebbero ricordato il mio nome”. La mentalità diffusa nel territorio considera il lavoro come unico parametro di definizione identitaria e ciò comporta la valutazione delle persone in base al benessere economico che il lavoro apporta: per essere considerati qualcuno, infatti, bisogna avere un posto di lavoro che porti un certo guadagno.

Margherita, a scuola è sempre andata bene e alla prof Raffaella Giovelli, insegnante di italiano, confida i suoi desideri più grandi, trasferirsi a Milano, considerata come una terra promessa, e studiare per diventare giornalista contro le aspettative di tutta la famiglia che le augura un mestiere impiegatizio e sicuro, che le possa permettere una tranquillità economica. Poco o niente importa che Margherita si senta appagata. Avrebbe la volontà di frequentare l’università e contemporaneamente lavorare, ma non se ne parla perché “cosa vai all’università a fare? (…) Perdi anni, ora che finisci ne hai ventitré ventiquattro venticinque e poi son soldi eh, (…), tra le rette e la macchina nuova (…) e la benzina (…) e la mensa e i libri di quello e i libri di quell’altro. Dico, cosa fai tutto questo tran-tran che il posto (…) ce l’hai già.”  Margherita, crescendo, si troverà a fronteggiare un futuro che, nato già disilluso, la imbriglierà nel suo immobilismo: passerà, sfruttata e svalorizzata, da una delusione lavorativa all’altra, attraverso un percorso di progressiva perdita di dignità in cui dovrà adattarsi alla realtà circostante per sopravvivere anche a costo di rinunciare ad una parte di sé e conformarsi a modelli preesistenti, non superabili se non con strappi troppo forti e autorevoli per una bambina/ragazzina.

Le parole della prof. Giovelli sembrano cadere nel vuoto per tutti, ma non per Margherita: “Non siamo burattini nelle mani del destino Margherita’ (…) ti ci vedo, Margherita (…) a fare la giornalista (…). Devi avere un‘opinione, Margherita. Il difficile non è scrivere, è avere qualcosa da scrivere. (…). È importante avere una posizione su ciò che succede. Altrimenti è da vigliacchi.” La ragazza vorrebbe tanto seguirle, ma le è impossibile, tanto è schiacciata dalla famiglia e dalla mentalità di quel luogo. Inoltre, Margherita ha tenuto di nascosto la pistola che era stata del nonno. In possesso di un‘arma, il lieto fine è quanto mai lontano…

Ilaria Bignotti Faravelli, psicologa 

G. Pavan, “Quasi niente sbagliato”, ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2023. 

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