Siamo giunti quasi al termine di questa rubrica, dove abbiamo cercato di attraversare alcune delle prospettive che si aprono quando accettiamo di guardare ai cambiamenti climatici non come a un fenomeno distinto e separato dal “corso normale” della nostra vita – che nel 2020 si è per il momento dimostrato tutt’altro che di facile mantenimento –, ma come una più ampia cornice di sistemi armonizzati in delicati equilibri in cui dobbiamo accettare la responsabilità di produrre trasformazioni come indistinta dall’inevitabilità di venire trasformati a nostra volta. Lungo la strada sembra di aver incontrato più vulnerabilità che certezze, ma se abbiamo letto correttamente gli autori e le tematiche fin qui affrontati, questo potrebbe essere un indicatore della possibilità di altrettante strade di sviluppi per una più completa comprensione delle nostre società calate nei nostri ambienti, in maniera non riduzionistica e non essenzialista. Ciò anche grazie a un’etica della cura discretamente universale, interessata proprio alla totale diversità degli interessi e del bene dell’Altro, come principio movente la buona azione e le buone scelte, non più imperniate su un criterio fortemente sbilanciato quale lo “sviluppo sostenibile”. Se togliamo la necessità di ricondurre tutte le soggettività vulnerabili – i bambini, l’ambiente, gli animali – a una fittizia idea di stabilità e di ricomporre l’Alterità con il Noi, possiamo iniziare a intraprendere un percorso, insieme nuovo e antichissimo, di ricerca delle contaminazioni con l’Altro-da-Noi che funzionano e hanno funzionato lungo la storia materiale non scritta (e spesso nemmeno percepita) e che ci hanno portati ai giorni nostri, a quello che siamo dal punto di vista biologico e culturale. Ripartire dall’azione dei vulnerabili, dall’agency dei bambini, dell’ambiente e degli animali, dall’esperienza criticamente accolta di ciò che ci tiene insieme in equilibrio tra somiglianze e differenze è il tentativo di alcune proposte educative sviluppatesi in tempi recenti. Tra queste abbiamo deciso di concentrarci su tre maggiori esempi: l’educazione emotiva e sistemica di Daniel Goleman, la zooantropologia didattica di Roberto Marchesini e la pratica degli Interventi Assistiti con gli Animali (IAA). Comune a questi percorsi è quel medesimo intento che abbiamo voluto sottolineare nel precedente articolo di dare forma, di sviluppare e diffondere un’etica della cura in grado di ridefinire i rapporti tra il nostro Sé e l’Altro, ponendosi il seguente problema: come educare ad aver cura?

A partire da questo quesito, le tre diverse proposte fanno propri due assunti fondamentali:

  1. sebbene l’educazione alla cura sia già da sempre presente sul piano pedagogico – in quanto l’essere umano è educabile, cioè in grado di realizzare la sua forma propria, attraverso l’apporto determinante di azioni di cura – gli odierni processi di formazione, che hanno lo scopo di preparare a coltivare la vita, non sono sempre attenti a sviluppare la disposizione al prendersi cura, in quanto si riserva particolare enfasi al rinnovamento della struttura del sistema formativo e all’introduzione di nuovi curricola, di nuovi percorsi disciplinari, tendendo così a mantenere il processo educativo dentro le strettoie della razionalità tecnica e della competenza;
  2. l’apprendimento dell’aver cura si può radicare nella partecipazione diretta e attiva a pratiche di cura, ovvero a esperienze che comportano una dilatazione della responsabilità morale al di là del proprio spazio esperienziale. In altre parole, una educazione alla cura può concretizzarsi in un’offerta di esperienze formative in grado di creare le situazioni atte ad alimentare la sensibilità emotiva nei confronti del mondo umano e del mondo naturale, avvalendosi della disposizione empatica, della percettività e della responsività che ci re-immettono nel continuum relazionale con l’Altro: sociale, ambientale e animale. Di conseguenza, si può dire che la disposizione etica alla cura insorge laddove è data la possibilità di costruire concrete e reali relazioni di cura, e questo implica l’organizzazione di contesti formativo-esperienziali e l’allestimento di ambienti di apprendimento che consentano la partecipazione a pratiche di relazionalità, di incontro con l’Alterità, di apertura empatica a ciò che è Altro-da-Sé.

Abbiamo visto che i cambiamenti climatici, al pari di molte altre situazioni che espongono le vulnerabilità di diversi tipi di soggetti, portano con sé tutto un repertorio emotivo che attualmente non trova riscontro in una buona, efficace, resiliente azione e reazione, con tutte le problematicità che abbiamo incontrato nei primi articoli. È qui che l’apprendimento sociale ed emotivo di Daniel Goleman si presta a fornire una alfabetizzazione, un dare il nome giusto alle emozioni di cui facciamo esperienza, prima sul piano dell’autoconsapevolezza individuale, poi sul piano sociale e infine su quello sistemico (1). Allenando quella dimensione emotiva dinamica e calata concretamente nell’azione – da lungo tempo esclusa dai programmi scolastici tradizionali – si impara a estendere la capacità di comprendere le emozioni nostre e altrui fino al realizzarsi eticamente di una preoccupazione emotiva che agisce non isolando ciascuno nella propria esperienza, ma accomunandoci in quella (inter)dipendenza filogeneticamente trasversale del prenderci cura degli Altri e del pianeta. In misura analoga, la Zooantropologia Didattica (2) e gli Interventi Assistiti con gli Animali (3) si propongono di organizzare esperienze a diretto contatto con la natura e – ancor di più – attività di relazione con gli animali capaci di estendere gli spazi e i tempi dell’educazione convenzionale, portando al centro la ricchezza di possibilità fornite da una relazione che è insieme fine e mezzo di una crescita educativa o di una vera e propria situazione terapeutica. Vengono così a essere superate le dicotomie natura/cultura e le pedagogie antropocentriche che rinchiudono la visione dei bambini e le loro relazioni all’interno di un mondo umano, “troppo umano”. Infatti, le attività di relazione con gli animali, ancorandosi su quell’interesse, quell’entusiasmo e quel gran numero di emozioni diverse (dalla meraviglia allo stupore, dalla curiosità alla paura, dalla gioia al disgusto) che i bambini provano con immediatezza, forza e autenticità alla presenza degli animali, possono favorire e sviluppare tanto una comprensione intellettuale dei loro comportamenti, della loro “voce”, dei loro bisogni, quanto una identificazione emotiva bambini-animali. Gli animali si espongono allo sguardo dei bambini attraverso un “essere in movimento” autonomo e riferito al contesto, disegnando atteggiamenti o stati emozionali-motivazionali e definendo campi d’interattività. L’animalità è riconoscibile in questo esporsi al mondo ed esprimere relazioni, in quanto cerca, segue, invita, sfugge, vale a dire si rapporta al bambino rendendolo protagonista, accendendo la sua espressività e la sua disposizione ad apprendere. A questo si deve aggiungere la somiglianza rispetto a determinati bisogni o desideri: nell’animale ci si riconsoce, si ritrovano esplicitate le proprie disposizioni, si leggono anche quegli atteggiamenti difficili da figurare e perciò li si comprende. Il bambino, però, si specchia nell’alterità animale sia dal punto di vista immedesimativo sia dal punto di vista dialogico-mimetico: se è vero infatti che nell’animale il bambino riscopre se stesso – perché riconosce in lui predicati condivisi e si sente parte di un confronto di azioni reciprocate – è altrettanto vero che nell’interprtazione dell’animale, nel gioco imitativo/rappresentazionale (il fingersi pesce, tartaruga, pappagallo, gatto, asino, etc.), il bambino sperimenta le proprie possibilità, ovvero va alla ricerca di possibilità espressive, di dimensioni esistenziali alternative a quelle specie-specifiche, di nuove coordinate di crescita e di nuove opportunità esperienziali. L’incontro e il confronto con gli animali, opportunamente mediato, apre a un modo di stare al mondo in sé benefico, poiché la dimensione della cura si offre non come mera competenza, ma come naturale frutto del contatto, dell’ascolto, dell’osservazione, della condivisione empatica di un ambiente e di esperienze. È una relazione di cura in cui l’Altro viene semplicemente lasciato essere e – se separato dai preconcetti umani di utilità, performatività o intelligenza – ci lascia semplicemente essere e ci cura dal nostro essere troppo umani. In questo genere di vissuti condivisi con l’animale al bambino è permesso di sperimentare nuovi immaginari, nuove forme di corporeità, nuovi linguaggi e modalità espressive, nuove possibilità di azione in un contesto non giudicante. Nel camminare con il passo del cavallo, nel guardare con gli occhi del branco degli asini, nel mappare lo spazio con l’agilità e l’eleganza del gatto, si possono sperimentare i tanti possibili modi di stare nell’ambiente, con la guida, ancora una volta, non di concetti e paradigmi di sviluppo e conservazione, ma sulla scorta delle emozioni che costituiscono la vera trama e il linguaggio universale delle relazioni vissute. Dare forma ed espressione a un simile tessuto relazionale con referenze non-umane, basato sull’importanza di considerare la soggettività, la diversità e la relazionalità, significa mettere al centro della formazione del bambino le sue competenze empatiche e dialogiche, all’interno di coordinate differenti di interazione con il mondo esterno, basate sul muoversi nel mondo, agire sul mondo, rispondere al mondo. Grazie a una simile educazione pluralista, maggiormente sensibile a incorporare differenti relazioni multi-specie, i bambini possono essere in grado di vedere se stessi e gli altri animali come esseri-in-relazione, possono apprendere che bisogna riferirsi all’Altro, cercare di conoscerlo, uscire dall’autoreferenzialità, mettendo così in discussione la visione dominante degli animali come meri beni, risorse disponibili per la nostra curiosità o convenienza, prive di veri valori e di veri diritti, collocando criticamente l’uomo all’interno di una complessa e ricca rete di relazioni e interscambi, recuperando quell’idea di dignità dell’animale e di umiltà nell’approccio a lui che la cultura antropocentrica continua a erodere. In conclusione, guardare all’animale come referente educativo, come fonte di messaggi per imparare a conoscere la diversità, come stimolo alla comunicazione, come evocatore di esperienze di studio e di gioco, come centro di interesse per percorsi transdisciplinari, significa lasciare che la relazione bambino-animale si dispieghi in infiniti modi all’interno dell’educazione, sollevando nuove domande e nuovi interrogativi, trasformando i settings educativi, proponendo un’apertura radicale a come le relazioni uomo-animali possono venire diversamente situate nelle esperienze di vita quotidiane. La via alternativa al negare l’Altro, reificandolo, consiste nell’incontrare l’Altro, nel riconoscerlo nella sua specificità. Si tratta di conoscere l’animale per quello che è, nella forma di un’etica della cura fondata sull’apertura verso l’Altro e sul senso di appartenenza a una rete di relazioni, in grado di sostituire a una concezione rigidamente discontinuista e piena di stereotipie una concezione aperta e dinamica delle relazioni interspecifiche, e in grado di promuovere la capacità di condividere empaticamente l’esperienza dell’Altro-da-Sé e di promuovere un’attenzione partecipe al suo vissuto.

  • Cfr. Daniel Goleman, A scuola di futuro: per un’educazione realmente moderna, Milano, Bur, Rizzoli, 2017.
  • Cfr. Roberto Marchesini, Il bambino e l’animale. Fondamenti per una pedagogia zooantropologica, Roma, Anicia, 2016;
  • Cfr. Ministero della Salute, Interventi Assistiti con gli Animali (I.A.A.). Linee guida nazionali, 2015. URL: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_276_allegato.pdf.

Lorenzo Cervi, collaboratore del Master

(Foto di Alessandro Maria Fucili)