Pinocchio e l’altruismo.
Pinocchio ritrova Geppetto nel ventre della balena, che Collodi chiama Pesce-cane. Geppetto è riuscito a sopravvivere fino a quel momento grazie a un bastimento mercantile carico di ogni genere di conforto ingoiato dal Pesce-cane insieme a lui. Le scorte di viveri stanno però per finire, e Pinocchio ha un’idea per fuggire: approfittando dell’asma del Pesce-cane, che lo costringe a dormire a bocca aperta di notte, raggiungere piano piano la bocca, scavalcare i tre filari di denti e svignarsela. Dopo un primo tentativo non riuscito, i due riescono finalmente ad abbandonare la bocca del Pesce-cane e fuggire a nuoto.
Pinocchio, nuotando con Geppetto a cavalcioni sulle spalle (i due anni di permanenza nel ventre del Pesce-cane lo hanno fortemente indebolito), sta per essere sopraffatto dalla stanchezza, quando il Tonno, che era fuggito dal Pesce-cane imitando il loro esempio, arriva in soccorso della coppia e li trasporta sulla sua groppa fino a raggiungere la riva.
Un intreccio di altruismi. Che continua. Giunti a terra e salutato il Tonno, Pinocchio e Geppetto incontrano il Gatto e la Volpe, invecchiati e ridotti allo stremo delle forze, che chiedono la carità: si fa beffe di loro. Dopo poco tempo i due trovano una capanna di paglia e bussano alla porta: una vocina li invita a entrare: è il Grillo-parlante, che afferma di aver avuto in dono la capanna da una capretta dalla lana turchina. Pinocchio e Geppetto si sistemano nella capanna del grillo, e il burattino va in cerca di un po’ di latte per Geppetto; il Grillo lo indirizza da un ortolano vicino. L’ortolano Giangio propone un lavoro al burattino: tirare su da una cisterna 100 secchi d’acqua per annaffiare le piante: in cambio gli darà un bicchiere di latte. Pinocchio accetta, e quando l’ortolano lo porta a vedere il suo ciuchino, ormai in fin di vita, che fino ad allora aveva svolto quel lavoro, il burattino si accorge che il ciuchino è il suo amico Lucignolo, che muore in quel momento.
Per cinque mesi Pinocchio, con il lavoro dall’ortolano e procurandosi qualche lavoretto per arrotondare, riesce a mantenere decorosamente se stesso e Geppetto, esercitandosi nel contempo allo studio. Un giorno, mentre sta andando a comprare dei vestiti, incontra la Lumaca, cameriera della Fata. La Lumaca lo informa che la sua padrona giace in un letto d’ospedale, povera e malata: Pinocchio le offre generosamente tutti i suoi quaranta soldi di rame e promette alla Lumaca di lavorare ancor più duramente per aiutare la Fata. Quella stessa notte la Fata gli appare in sogno, bella e sorridente, e gli dice che per il suo buon cuore dimostrato assistendo suo padre Geppetto, lo perdona per tutte le monellerie che ha combinato.
Al risveglio Pinocchio si accorge di essersi trasformato in un ragazzo in carne e ossa; la capanna è diventata una bella casetta, i suoi vecchi vestiti si sono trasformati in nuovi e in tasca si trova un portamonete d’avorio con un biglietto: la Fata gli restituisce i quaranta soldi e lo ringrazia per il suo buon cuore. Ma i soldi sono diventati quaranta zecchini d’oro. Anche Geppetto si è trasformato: è ritornato l’arzillo vecchietto di prima e sta lavorando una cornice, riprendendo il vecchio mestiere di intagliatore in legno. Sorridendo, gli indica un burattino appoggiato su una sedia: è il vecchio involucro di Pinocchio, che si rivede come una buffa marionetta, e contento di essere diventato un ragazzino perbene.
Gli esseri umani hanno un linguaggio costituito da parole da simboli. Simboli e parole sono polisemiche. Hanno più di un significato secondo la loro collocazione in un paesaggio[1] e secondo le occasioni in cui sono utilizzate. Vanno oltre la fisicità. È vero che l’abito non fa il monaco. Ma l’abito è un simbolo, un elemento di un linguaggio. Potremmo dire che parole e simboli evocano più contesti, paesaggi, e dovrebbero impegnare a trovare le connessioni fra loro. Hanno una pluralità di significati. Gli esseri umani hanno una pluralità di sfaccettature dell’identità. Colleghiamo queste due pluralità: dei significati delle parole e dei simboli, e di sfaccettature dell’identità di un essere umano, servendoci della parola riconoscersi. Quanti significati potrebbe avere? E ci aiuta a capire quella che, per sintesi, chiameremo l’identità plurale degli esseri umani?
Nel teatro come nella letteratura, il riconoscimento, detto anche agnizione – dal latino agnitio, che vuol dire appunto riconoscimento – è il motore di molte vicende. E nelle religioni il riconoscimento è fondamentale nel percorso verso la verità. Rabbi Mendel di Kozk disse: “Dio abita dove lo si lascia entrare”[2]. E alcuni hanno lasciato entrare riconoscendolo in chi è povero e sconfitto. Ci sono diverse forme di riconoscimento. Ci limitiamo a indicarne due. Vi è il riconoscimento dovuto alla ricomposizione di un oggetto, di una moneta a suo tempo spezzata. E c’è, e può andare d’accordo con la forma precedente, il riconoscimento che è il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza. Aggiungeremo qualcosa a proposito delle disabilità e delle persone con disabilità: cosa ha a che fare il riconoscimento in questi casi? È utile per la possibilità di progetto? Si tratta di riconoscere un individuo in una diagnosi? Oltre la stessa diagnosi? Come?
Sergio Neri, come Franco Basaglia, cercò di operare per il superamento delle istituzioni totali. Ma “quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. In questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, di nulla sia detto ” è naturale”. Così che, forse, nulla valga come cosa immutabile”[3].
Leggiamo: “[…] arrivammo in una sala con una ventina di letti; ad ognuno di questi c’era un ragazzino completamente nudo legato con una fascia ad una gamba o al polso e fissata alle reti. I materassi erano tutti ricoperti di skai, non c’erano comodini né cuscini e tanto meno lenzuola, il pavimento era zuppo di piscio e feci. In sala c’era un unico infermiere che con l’ausilio di un unico lenzuolo per tutti, puliva le bocche a questi poveri ragazzi, i quali avevano appena ricevuto il pranzo. L’età di questi miseri esseri umani si doveva aggirare tra i quindici e i vent’anni”[4].
Teniamo presente che non erano pochi coloro che venivano collocati in ospedale psichiatrico per risolvere in questo modo problemi di economia famigliare. Una bocca in meno. O un pretendente in meno al patrimonio di famiglia.
Se la disumanizzazione è la cancellazione dei paesaggi, del passato e del futuro, l’umanizzazione è il contrario: è la possibilità di rappresentarsi, di riconoscersi, in molti paesaggi. Quelli dove siamo stati e che ricostruiamo nella nostra memoria condita dalle nostre immaginazioni. Quelli del futuro che sogniamo, immaginiamo, progettiamo.
I paesaggi possono essere raggiunti in molti modi. Il poeta Tonino Guerra (1920-2012), nel periodo in cui insegnò all’Istituto Agrario di Cesena, diede ai suoi studenti lo stesso tema per un anno, sorprendendo i suoi studenti. Il tema era: cosa ho mangiato ieri sera. Quando gli studenti gli fecero notare che quel tema era già stato dato, Tonino Guerra a sua volta fece notare che “ieri sera” non poteva riferirsi all’altra volta. Fu così che qualche studente scoprì che il pasto della sera prima poteva aprire paesaggi. Uno studente, nel bollito che aveva mangiato la sera prima, aveva visto le pampas argentine, dove sognava di andare. Il tema di Tonino Guerra era uno strumento di umanizzazione.
Lo stesso Tonino Guerra scrisse[5]:
Contento,
proprio contento sono stato molte volte nella vita,
ma più di tutte quando
mi hanno liberato in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.
Non citiamo questi versi solo per il gusto della citazione, ma soprattutto per segnalare come l’umanizzazione contenga un aspetto peculiare degli esseri umani: la lettura simbolica della realtà. Il campo di sterminio vietava ogni simbolo che non fosse nell’iconografia nazista.
L’inclusione è pluralità. È riconoscersi in diversi contesti, o paesaggi. “Quando indicate un intero gruppo di persone con un unico termine, come per esempio musulmani, agite come se voleste sbarazzarvene: non sapete più distinguere i singoli individui. Il nome, la parola vi avrà così impedito di comportarvi come un essere umano in relazione con altri esseri umani. Krisnhnamurti (1960)”[6].
Giuseppe Pontiggia (1934 – 2003) scrittore, anche e soprattutto di aforismi, critico letterario italiano, ebbe il Premio Società dei Lettori e Pen Club nel 2001 con Nati due volte (2000), romanzo in cui la disabilità del figlio Andrea diventa una narrazione non solo autobiografica; e da cui è stato tratto il film, diretto da Gianni Amelio, Le chiavi di casa.
Perché nati due volte? L’Autore ritiene che si debba fare qualcosa di meno di ciò che comunemente riteniamo di dover fare. Dobbiamo vivere giorno per giorno, e non pensare ossessivamente al futuro. Chi nasce con una disabilità, sostiene Pontiggia, nasce due volte, dovendo imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile che per gli altri. La seconda dipende da quello che gli sarà dato e farà proprio. Riconoscere la diversità non è razzismo. È un dovere per tutti. Il razzismo è la diversità dei diritti.
Tutti, in qualche modo e indipendentemente dalle disabilità, dovremmo nascere due volte, riconoscendo che
- abbiamo dei limiti.
- Siamo vulnerabili.
- Ci riconosciamo negli altri.
Andrea Canevaro
[1] Utilizziamo questa parola nel senso esplorato da Vittorio LINGIARDI (2017), Mindscapes. Psiche nel paesaggio, Milano, Raffaello Cortina Editore.
[2] In M. BUBER (1979), I racconti di Chassidem, Milano,Garzanti, pp. 604-605.
[3] da L’eccezione e la regola di Bertold Brecht (1930).
[4] Angioli G. (2016), La Chiave Comune. Esperienze di lavoro presso l’ospedale psichiatrico Luigi Lolli a Imola, Editrice La Mandragola (via Salice, 91- 40026 Imola, Bologna), Imola (Bo). P. 14.
[5] Tonino GUERRA, i bu. Poesie romagnole, Milano, Rizzoli, 1972. Traduzione di Roberto Roversi, con la prefazione di Gianfranco Contini.
[6] in Majid. RAHNEMA (2005; 2003), Quando la povertà diventa miseria, Torino, Einaudi, p. 85. Majid Rahnema (1924 – 2015).