Ho imparato a comprendere che la vita è fatta di attimi. Flash ripetuti attimo dopo attimo. Come le diapositive che mio padre mi mostrava da bambina. Gente che parla. Clic. Una giostra. Clic. Un bambino che piange con le braccia allungate verso un baracchino di zucchero filato. Clic. Un cavallino che sale. Clic. Una macchina che scende. Clic. Un urlo. Clic. Nero. Nero. Nero.
Ad un certo punto le immagini si fermano. E per quanto tu cerchi di mandarle avanti non fa che tornare un’inutile monotona diapositiva. Nera.
Se quel giorno ti avessi comprato lo zucchero filato. Se quel maledetto giorno non avessi mantenuto le regole inutili di una madre rigida, alle quali già altre volte avevo saggiamente derogato, tutto questo non sarebbe successo. Non saresti corso dietro quella maledetta giostra. Girava, girava, girava. E io non ti vedevo.
Le baby sitter lo sapevano che non dovevano mai perderti di vista. E proprio io, quel giorno, all’improvviso, non ti ho visto più.
“Avete visto il mio bambino?” quante volte ho fatto questa domanda a tutti quelli che incontravo. Facce note, altre perfettamente sconosciute. Tutti mi guardavano con quell’aria interrogativa, mista a compassione. Poverina, chissà come farà a ritrovare il suo bambino in mezzo a tutta questa gente. Poverina.
Nero. Tutto dannatamente nero.
Non dovevamo mai perderti di vista. Lo sapevano le maestre. Lo sapeva la bambinaia. Lo sapeva la donna delle pulizie. Lo sapeva il portinaio che mi aiutava a darti un’occhiata quando tu giocavi in cortile con gli altri bambini e io avevo bisogno di finire di lavorare, come capita a tutte le mamme che si trovano a dover crescere da sole il proprio figlio.
Lo sapevo anche io, che avevo già vissuto il terrore di perderti. Di vederti portare via e non tornare più.
A volte ero stanca. Stanca di avere paura. Quel giorno ero stanca. Anche se era un giorno di festa. Anche se avremmo dovuto essere felici. Quei luoghi pieni di gente mi inquietavano ancora di più. Per questo ti stringevo la mano forte, troppo forte. Per questo cercavo di evitare ogni posto in cui potevo perderti di vista. Che ironia della sorte.
Tu guardavi tutto con occhi curiosi, come qualsiasi altro bambino avrebbe fatto. Mi hai chiesto lo zucchero filato. Con la coda dell’occhio ho guardato nella direzione di quella macchina filante che girava. Troppa fila. Troppa gente. E poi avevi già mangiato il gelato. Ho detto no. Un no forse troppo secco. Forse troppo perentorio. Hai cominciato a piangere. Detesto i capricci. Soprattutto quando sono nervosa. Ho provato per un po’ a fare finta di niente. Ma tu urlavi e ti dimenavi. Mi è venuto spontaneo allentare la presa per provare a parlarti. A calmarti. È stato un attimo. Un attimo che non dimenticherò mai. Sei scappato via. Dietro quella maledetta giostra. La gente che non si spostava. Quei cavalli che si alzavano e si abbassavano. Quella ruota che girava, girava, girava, impedendomi di trovare un punto di riferimento. Di riconoscere il tuo viso tra centinaia di altri visi. Di sentire la tua voce tra centinaia di altre voci.
“Avete visto il mio bambino? Qualcuno lo ha visto?”. Una domanda sospesa.
La giostra. Clic. Le sirene. Clic. La volante. Clic. “Avete visto il mio bambino?”. Clic. “Avete visto un bambino biondo?” Clic. “Voleva lo zucchero filato”. Clic. Nessuno doveva perderlo di vista. Clic. Non dovevo perderlo di vista. Clic. Nero. Nero. Nero.
Monica Betti