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Non è semplice trattare il tema delle povertà educative dal punto di vista della loro trasposizione cinematografica. Forse perché questo tema porta con sé una forte complessità, peraltro molto legata alle storie individuali. Ma è comunque interessante avvicinarsi alla lettura ed all’interpretazione che autori e registi, a volte anche lontani nel tempo e nello spazio, possono fare di un tema che è ancora così attuale.

Ed è proprio dell’aiuto che il cinema può dare nel leggere alcune storie che vorrei parlare oggi, a partire da due film all’apparenza molto diversi, ma che possono ben rappresentare la complessità della quale stiamo trattando.

Compagni di branco è un film del 1996, la regia è di Paolo Poeti. È interpretato da un giovane Giulio Scarpati che ricopre il ruolo del Prof. Minardi, un insegnante al quale viene offerto per la prima volta il ruolo in un istituto tecnico della periferia di Roma. Si tratta di un quartiere difficile, dove studenti adolescenti frequentano la scuola senza riversare in essa un serio investimento personale: alcuni la frequentano perché obbligati, altri la utilizzano come copertura per i loro traffici illeciti, altri ancora per sfuggire alla cruda realtà che un quartiere degradato mette di fronte a giovani senza il supporto ed il controllo degli adulti di riferimento. Il Prof. Minardi eredita così un impegnativo fardello, che nessun professore prima di lui aveva trovato la forza di educare: trova davanti a sé un branco coeso nel mercanteggiare i voti, nel sottrarsi a qualsiasi forma di responsabilità individuale e collettiva. Un gruppo così coeso nella devianza dalla norma che, quando il Professore decide, giustamente, di sospendere Aliprandi, il capo branco, l’intera classe decide di disertare le lezioni.

Il film, in maniera a tratti un po’ semplicistica ma efficace, rappresenta un mondo, quello degli anni Novanta, che, adesso, la mia generazione tende a ricordare con una certa nostalgia, per nulla memore del fatto che quegli anni così pieni di aspettative e di speranza per il futuro, in cui tutto sembrava servito su un piatto d’argento, alla portata di chi aveva il coraggio di coglierlo, ha in realtà per molti costituito l’era delle opportunità sprecate. Quei compagni di branco così difficili da scalfire sono stati, in parte, i compagni di banco di molti della mia generazione.

Il Prof. Minardi riuscirà a conquistare la stima ed il rispetto di quei giovani, dimostrando loro la sua tenacia nell’esserci sempre e comunque, incarnando un ruolo affettivo ed educativo a prescindere dalla risposta in termini di studio e partecipazione da parte degli studenti.

Una figura interessante è rappresentata dal personaggio di Gianna. Gianna è, apparentemente, la classica studentessa disinteressata e distaccata dalla realtà: quella che si addormenta sul banco, che non sa mai niente di quello che il professore spiega, quella che frequenta la scuola senza un evidente motivo, quella che si fa influenzare dal fascino del più forte, del capo branco, e che adegua il suo comportamento a quello che egli le ordina di fare.

Quando Aliprandi viene sospeso e l’intera classe smette di frequentare, il Prof. Minardi cerca i suoi studenti casa per casa, nell’aspettativa di trovare validi alleati nei loro genitori. Quando il professore si reca a casa di Gianna e informa sua madre che non frequenta più la scuola da giorni, la donna tira un sospiro di sollievo. Dice che avrebbe acceso un cero alla Madonna, che era tempo che sua figlia si decidesse ad aiutare economicamente la famiglia, invece di avere “quella fissa di studiare”. Il professore, ammutolito di fronte a questa affermazione della madre, guarda Gianna uscire dalla sua camera in abiti eloquenti che lo apostrofa dicendo: “Lei ci andrebbe volentieri a battere, professore?”. Minardi comprende in quel momento i lunghi silenzi, la stanchezza, il non attaccamento alla vita scolastica di Gianna, per la quale, evidentemente, la scuola rappresentava una lecita scusa per non vendere il suo corpo. Lo sguardo di Minardi si sposta da Gianna a sua madre, la quale abbozza un sorriso accondiscendente.

Gianna muore. Muore uccisa da un cliente in una strada di campagna. Il Prof. Minardi apprende la notizia dalla polizia scientifica accorsa sul posto per effettuare i rilievi. Gianna muore e con lei muore la possibilità per i suoi fratelli di andare a scuola, perché era per cercare di garantire loro un futuro diverso dal suo che lei si prostituiva; con lei muore il desiderio di riscatto che per qualche momento il Prof. Minardi era riuscito a farle provare; con lei muore l’impegno sociale e civile di una generazione adulta che deve spronare i suoi figli non ad autosostentarsi, ma a credere in se stessi.

Quando incontro Valentina per la prima volta, prima in una comunità per minori e poi a scuola, rivedo in lei gli occhi di Gianna; rivedo in lei gli occhi di chi non vive la vita per se stessa. Dietro di lei ci sono orrori indescrivibili, quelli che mai un adolescente dovrebbe vivere, quelli che mai due genitori dovrebbero commettere nei confronti di un figlio. Una storia come quella di Valentina non dovrebbe mai essere raccontata.  Anche Valentina voleva andare a scuola: le sue insegnanti, soprattutto una, ed alcune ragazzine che le facevano compagnia durante la ricreazione erano la sua ancora di salvezza. Quando le vedeva e poteva passare la mattina con loro le sembrava, per pochi istanti, che la vita sapesse di diari Smemoranda, della pelle degli anfibi scolorita dal sole e dalla pioggia, del tabacco delle sigarette compresse nella tasca della giacca per eludere la sorveglianza degli adulti. Ma poi tornava a casa e quell’odore di vita e di giovinezza si mischiava all’odore dell’alito pesante dei clienti che i suoi genitori la costringevano ad incontrare, all’odore dello zucchero delle caramelle che si attacca all’involucro di plastica, che quegli uomini disgustosi le davano per convincerla che non c’era niente di male in quello che stavano facendo.

Non so come Valentina fosse prima che la sua vita di bambina e di adolescente fosse spazzata via dalla nefandezza di cui si ammantano alcuni esseri umani, ma so com’era dopo. Quegli occhi colmi di inconsapevole disperazione sono ancora aggrappati alla parte più profonda della mia anima.

È la povertà economica a determinare le storie di Gianna e di Valentina? Può una situazione economica, per quanto disperata, unita ad un contesto sociale sicuramente problematico far sentire due genitori autorizzati a vendere i propri figli?

I film ci insegnano che la povertà educativa di genitori che disinvestono nella vita scolastica dei propri figli, al punto da disinvestire nella vita stessa, appartiene sì alle persone che vivono grande disagio, ma che al contempo sono caratterizzate da aridità affettiva, da meschinità. La risorsa educativa che può essere incarnata da un adulto viene equiparata ad una ricchezza affettiva, psicologica, ove possibile anche culturale, la quale rappresenta la vera essenza della possibilità, per i figli, di intraprendere un futuro diverso, ancorché non completamente compreso, dai loro genitori.

Ma il dato economico è rilevante? Pensiamo al film L’attimo fuggente, del 1989, diretto da Peter Weir e il cui protagonista è il compianto Robin Williams. La trama è nota: intorno agli anni Sessanta il Prof. Keating, insegnante di letteratura, inizia il suo lavoro presso il collegio maschile di Welton. Il collegio è frequentato dai rampolli di note famiglie aristocratiche che, indipendentemente dalle reali capacità dei loro pargoli, nutrono per loro le più alte aspettative. Il professore, utilizzando metodi didattici tutt’altro che tradizionali, spronerà i giovani a vedere la realtà da prospettive diverse, seguendo il loro intelletto e la loro sensibilità, convincendoli della necessità, talvolta, di discostarsi dalla massa. A fare le spese di questo eccesso di intraprendenza è Neil, figlio di un padre che ha sempre sognato di fare il medico ma che non ha mai potuto raggiungere il suo sogno, che vorrebbe però veder realizzato nel suo unico figlio; Neil si toglie la vita, dopo non essere riuscito a comunicare a suo padre il suo profondo desiderio di diventare attore, sentendosi senza scampo in una vita predeterminata.

Il Prof. Keating verrà cacciato dalla scuola, dopo che i suoi studenti, pur consapevoli dell’immenso valore umano del loro professore, sono stati costretti, dai loro genitori e dagli altri professori, a firmare delle dichiarazioni mendaci circa il suo ruolo nel circuire i giovani e, indirettamente, nell’aver causato la morte di Neil.

Non si può certo dire che il padre di Neil non sia disposto ad investire economicamente nel futuro scolastico del figlio. Si impegna a farlo studiare in uno dei più prestigiosi collegi e si accerta che nessun impegno extrascolastico ostacoli il suo rendimento. Eppure Neil muore. Come Gianna. Due storie così diverse hanno lo stesso tragico epilogo. Neil muore perché vuole recitare e suo padre glielo impedisce? No. Neil muore perché non ha saputo mettersi in ascolto di se stesso, schiacciato dalle pretese di un padre che, come la madre di Gianna, ha rinnegato la vita del proprio figlio asservendola alle sue prerogative personali.

E’ povertà educativa questa? Lo è. È povertà di spirito, povertà di ascolto, povertà di accettazione dei propri figli per quello che sono, povertà di cogliere il valore formativo profondo in ogni opportunità che la vita ci mette davanti.

Il dato economico non è determinante. Certo, la possibilità di investire economicamente nelle scelte di studio dei propri figli fa un’enorme differenza nella propensione dei genitori a supportare percorsi scolastici e formativi che, per lo meno nel nostro Paese, si rivelano spesso lunghi e dispendiosi. Ma non si tratta solo di questo. La disponibilità economica non determina la propensione a mettersi in ascolto autentico dei propri figli, di valutare le loro aspettative, le loro speranze, di lasciarsi convincere a volte a sognare insieme a loro.

La ricchezza economica non determina la ricchezza di spirito che serve per accogliere dentro di sé le sfumature di una società che si presenta sempre più complessa, ma che può comunque fornire grandi opportunità a chi è disposto ad offrire la propria vita per un grande sogno.

Nei due film muoiono Gianna e Neil. Nelle realtà muoiono tutti i giorni le scelte coraggiose, che vengono piegate alla logica della strada più facile con la minore fatica.

Dicono che i giovani di oggi scelgono la scuola superiore con sempre minore consapevolezza. Non è vero. Molti giovani di oggi scelgono la scuola pensando a quale percorso scolastico più breve può portare al massimo rendimento in termini economici e di possibilità di trovare impiego.

Circa sei o sette anni fa nel mio territorio ci fu un boom di iscrizioni all’istituto alberghiero, peraltro dislocato e non comodissimo da raggiungere. I programmi televisivi li avevano convinti della concreta opportunità e facilità di diventare dei novelli Masterchef.

Forse è un problema sognare di partecipare alla Prova del cuoco? No. E’ un problema sognare di partecipare a Cuochi e fiamme senza aver scrutato dentro di sé il desiderio di fare della cucina (che non fa rima con fornelli e con business, ma con salute, equilibrio, socialità, attenzione all’altro) il proprio obiettivo di vita, un grande desiderio al servizio del quale mettere un grande sacrificio, spronati dall’amore e dall’attenzione di adulti che sappiano discernere il livello di ponderatezza di queste scelte.

La povertà educativa nelle famiglie si realizza ogniqualvolta non si spronano i figli a credere nel potere dei sogni e del sacrificio. Ogniqualvolta ci serviamo di loro per raggiungere i sogni che non abbiamo mai osato realizzare, semplicemente perché adesso possiamo permettercelo. Ogniqualvolta ci dimentichiamo che non abbiamo messo al mondo i nostri figli perché ci aiutino o aiutino se stessi, in qualsiasi modo immaginiamo possano farlo, ma perché siano liberi e felici.