Loro nemmeno se ne accorgono, ma io li sento i loro sguardi. Alcuni pietosi, altri indifferenti, altri ancora languidi e viscidi come i loro padroni. Si nascondono dietro al fatto che sono cieca, ma non hanno fatto i conti con il sesto senso che ho sviluppato fin dalla nascita e che mi permette di capire subito con chi ho a che fare. E’ comodo per loro trattarmi come una minorata, come una che può fare ma solo fino ad un certo punto. Questo li mette al riparo dalla loro pochezza. Alcuni di loro pensano che questo lavoro mi sia stato regalato. Perché ho una disabilità. Se solo sapessero che cosa significhi studiare su dei libri in Braille che non arrivano mai, dover registrare tutte le lezioni e perdere ore e ore a riascoltarle per tentare di far entrare qualcosa in testa; se sapessero che cosa significhi calcolare ogni minuto, ogni imprevisto, perché anche il semplice tragitto da casa all’autobus può rivelarsi un percorso pieno di insidie per chi non vede. Se potessero immaginare tutto questo, i loro sguardi inopportuni se li terrebbero per sé.
Ma ormai ci ho fatto l’abitudine. Ho bisogno di lavorare, esattamente come loro. Ho una casa da mandare avanti, affitto, bollette da pagare, visite mediche. Ho una vita normale. Che va oltre la mia disabilità.
E poi ci sono loro: quelli che tramano nell’ombra, quelli che sembrano gentili e garbati, ma che in realtà approfittano del buio dei miei occhi per immaginare che cosa porto sotto la gonna, o per indugiare sulla scollatura della mia camicia. Si nascondono dietro il fatto che non posso vederli. A volte gli sguardi non gli bastano. La cecità è una condizione che ti porta al contatto fisico con l’altro, che tu lo voglia o no. Spesso ti devi affidare, anche a persone che conosci poco o affatto. Altrimenti come potrei risolvere gli imprevisti, come potrei chiedere aiuto quando sono in difficoltà? Mi devo affidare e sperare che chi ho di fronte non voglia cogliere l’occasione per approfittarsene. Ma qualcuno, a volte, se ne approfitta.
E così, mentre con una mano mi aiuta a superare un ostacolo o a scendere un gradino, con l’altra mi accompagna la schiena, approfittandone per palparmi il sedere. Quando dimostro di essermene accorta, i viscidi fingono stupore, si prodigano in scuse false come loro. E poi, che cosa succede? Prosegue tutto come prima. Alcune persone impari ad evitarle. Altre, invece, te le ritrovi sempre intorno.
Per loro sono solo una donna, per di più cieca. Il che rende loro ancora più facile il compito.
Alcuni li individuo subito. Sono quelli che cominciano a ronzare intorno alla mia scrivania negli orari più impensati, proprio quando i vicini di ufficio sono in pausa o in riunione; sono quelli che, quando devono chiederti un favore, si avvicinano sempre troppo, fino a farti sentire il loro alito che sa di nicotina o di gomme alla liquerizia. Allora provo a spostarmi, cerco di stare sulle mie. Ma a loro non importa. Anzi, forse l’idea della sfida li eccita ancora di più. E riducono quella distanza che invece io cerco in ogni modo di mantenere. Sono quelli che ti sfiorano la mano per prenderti il mouse. Sono quelli che, quando sono certi di non essere sentiti da altri, ti lanciano battute sconce. Di quelle che ti vergogneresti persino a ripetere.
A volte, quando rimango sola, mi viene da piangere. Mi sento sporca. E stanca. A chi potrei raccontare queste cose? Chi crederebbe ad una misera centralinista cieca? Una che deve ringraziare ogni giorno per il posto di lavoro che ha. Uno stipendio sicuro, un ambiente accogliente e via dicendo. Già me le immagino le parole del capo. Perché gli uomini si difendono tra loro. Oppure non considerano gravi parole e azioni che ti penetrano nella carne come la lama di un coltello.
Questo è quello che vivo praticamente ogni giorno. Loro pensano che certe toccatine, certe parole, non siano un’offesa reale. E non si rendono conto che basta uno sguardo. E che io quello sguardo lo sento. Lo sento partire dai loro occhi ed appoggiarsi sul mio corpo. Lo sento trapassarmi da parte a parte, sconvolgere tutti gli estremi della mia essenza, per poi lasciarmi sola e inerte.
La verità è che bisognerebbe provare a vivere al buio, dove ogni suono, ogni gesto, ogni rumore naturale è amplificato. Bisognerebbe provare a sentirsi inermi, a convivere con la consapevolezza che chiunque potrebbe approfittarsi di noi. Che bisogna diffidare di tutti, anche di un semplice passante alla fermata del tram. Bisognerebbe provare a mettersi nei panni degli altri. Non nei miei in particolare. In fondo, io non sono che una persona. Ma quante donne, come me, sopportano quegli stessi sguardi, quegli stessi palpeggiamenti, quegli stessi atteggiamenti di chi si sente più forte, più potente? Di chi si sente in diritto di prevaricarci, di sottometterci, di azzerare i nostri sentimenti e la nostra dignità, solo perché siamo donne.
Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia