Quest’oggi ci occupiamo di un tema molto delicato, che coinvolge la vita di ciascuno di noi ma sul quale, spesso, preferiamo non soffermarci a riflettere a causa dell’alto coinvolgimento emotivo che porta con sé. Il tema della morte ci riguarda da vicino, non solo perché rappresenta il contraltare della vita di ognuno, ma perché riguarda anche l’esistenza delle persone che ci sono care. E’ da una prospettiva un po’ diversa che desidero oggi affrontare il tema della morte: esso, come molti antropologi, psicologi e sociologi affermano, è il tema più tabuizzato nelle diverse epoche storiche, al punto da non possedere nemmeno una corposa bibliografia a riguardo, se si effettua un paragone con altre tematiche delle quali le scienze si sono occupate; gli adulti rifuggono il pensiero della morte e, come sostiene Di Nola nel suo bellissimo testo La nera signora, antropologia della morte (1995), tendono a seppellirlo con la stessa cura con la quale si seppelliscono i defunti.
La morte viene negata, occultata, a volte oserei dire sbeffeggiata (come avviene nel caso dei cosiddetti muertos paraos, i morti in piedi, per un ulteriore approfondimento si rimanda al sito bizzarrobazar.com) e, così come viene accuratamente eliminata dalla vita degli adulti, con altrettanta attenzione viene estirpata dalla vita dei bambini. Ecco, è proprio dei pensieri e delle rappresentazioni che i bambini dimostrano di avere nei confronti della morte che vi voglio parlare oggi. Come solitamente amo fare, vorrei attingere dalla mia esperienza personale e lavorativa, non perché siano di particolare rilevanza, ma perché mi piace cercare di attivare connessioni di senso tra ciò che troviamo scritto nei testi e ciò che a ciascuno di noi potrebbe capitare mentre viviamo e lavoriamo. Più o meno il 15 settembre 1990 iniziai la seconda elementare. Ma il primo giorno di scuola Gionatan non c’era. Le maestre ci dissero che si era trasferito in un’altra scuola che offriva il tempo pieno tutti i giorni, perché i suoi genitori lavoravano fino a tardi. Gionatan abitava nel nostro stesso quartiere, ma cominciammo a vederlo sempre più di rado nel campo sportivo della parrocchia, dove ci fermavamo a giocare dopo il catechismo tutti i giovedì. Io volevo molto bene a Gionatan; spesso mi sedevo di fronte al suo banco quando faceva fatica a finire i compiti e, in una mattina del secondo quadrimestre, avevamo suggellato la nostra amicizia con uno scambio di doni: io gli avevo regalato uno dei miei libricini di storie e cornicette, lui una delle sue pistole. Potrà sembrare strano, ma entrambi fummo molto soddisfatti del nostro scambio, perché la mamma di Gionatan non gli aveva mai comprato un libro di cornicette e, quanto alla mia, una volta avevo provato a chiederle una pistola, ma non mi aveva presa sul serio. Dopo quel primo giorno di scuola del 1990, mi chiesi molte volte dove fosse finito Gionatan e perché non ci fosse mai più venuto a trovare, nemmeno una volta, ma nessuno parlò più di lui ed io tenni le mie domande per me. Un giorno un bambino della classe parallela mi disse: “Io lo so perché Gionatan non viene più. Ha un tumore in una gamba. Forse gliela devono tagliare”. Io non avevo mai sentito la parola tumore prima di allora, né sapevo che le persone morissero, ma vi assicuro che, improvvisamente, dentro di me seppi esattamente che Gionatan aveva una malattia che lo avrebbe portato alla morte. E, nonostante tutti bambini della scuola fossero a conoscenza di quello che Gionatan stava vivendo, nessun adulto parlò mai più di lui. Io ero in chiesa il giorno in cui il parroco gli impartì sia la Comunione che la Cresima, vidi il suo viso senza capelli e ricordo che guardai il suo completo chiaro, per distinguere dai pantaloni se la sua gamba ci fosse ancora o no. C’era: allora pensai che, fortunatamente, non era stato necessario tagliarla. Il giorno in cui, per caso, vidi uscire la sua bara bianca dalla chiesa di San Severo capii che tagliare quella gamba non sarebbe servito a niente. Dalla chiesa uscirono anche la nostra maestra, che evidentemente era stata al funerale, ed una manciata di compaesani che sostenevano i familiari affranti. Dopo il corteo funebre nessuno parlò mai più di lui. In una fredda mattina dell’inverno del 2015, mentre mi stavo recando al lavoro presso il Servizio Sociale, la mia collega Roberta mi telefonò per dirmi che Davide era morto. Davide era un bambino con una grave paralisi cerebrale che frequentava i Servizi dai primi mesi dopo la nascita e che, solo da un anno, avevamo inserito alla scuola dell’infanzia del territorio di residenza. Ho lavorato nei servizi sociali e sanitari per molti anni, ma non ho mai fatto l’abitudine alla sofferenza umana. E non ho mai accettato la morte di un paziente, soprattutto di quelli più giovani e indifesi. La morte di Davide, quella mattina, mi ha sconvolta e, come ogni volta che mi trovo di fronte alla morte di qualcuno che considero caro, ed i pazienti e le loro famiglie per me lo sono, mi sono trovata davanti agli interrogativi senza risposta che spesso accompagnano i lutti: ho fatto abbastanza? Avrei potuto fare di più? Quello stesso giorno mi chiamò la Dirigente della scuola che Davide frequentava, per farmi presente che le insegnanti non avevano intenzione di raccontare ai compagni di Davide quello che era accaduto. E per sapere che cosa ne pensassi io. Io pensai a Gionatan. E in quel momento provai un sentimento che, negli anni della mia infanzia, non avevo pensato di poter provare: una profonda rabbia. Perché la maestra non ci aveva detto che Gionatan stava male? Perché mia madre non mi aveva detto che era morto? Perché nessuno di quegli adulti che il giorno del funerale piangevano si è mai preoccupato di chiedere a noi bambini se avessimo delle domande da fare su Gionatan? Se anche noi volessimo o sentissimo il bisogno di piangere per lui? Alla Dirigente risposi che i bambini non dovevano essere privati della possibilità di sapere, di fare domande, di ricevere una spiegazione perché, col tempo, la sedia vuota, la casella bianca in mezzo alle fotografie delle presenze dei bambini ed il raccoglitore della documentazione senza disegni, avrebbero parlato da soli, ma i bambini non sarebbero stati in grado di trovare le risposte che cercavano e, come era successo a me, forse non avrebbero avuto il coraggio di chiedere. I bambini non dovrebbero mai essere privati della possibilità di esprimere gli interrogativi che si portano dentro. Ma il mio era solo un pensiero in mezzo ad un coro incessante che gridava a gran voce che i bambini dovevano essere protetti dall’idea della morte, che in fondo non l’avrebbero nemmeno capita, alcuni dissero che i più intelligenti lo avrebbero intuito da soli, dal momento che le condizioni di Davide erano da sempre molto gravi. Nonostante abbia insistito con tutte le mie forze, le insegnanti comunque dissero ai bambini che Davide aveva cambiato scuola. Forse, un giorno, quei bambini troveranno la lapide di Davide al cimitero e proveranno la stessa rabbia che ho provato io. E, spero, come me, insegneranno ai loro figli che evitare di parlare della morte equivale a sminuire il senso della vita. Distaccarci da coloro che amiamo è sempre doloroso, ma fingere che non se ne siano andati non cambierà la realtà delle cose. Non solo. E’ importante recuperare, soprattutto con i bambini, la dimensione del lutto che, diversamente da come siamo abituati a pensare a livello di senso comune, non è necessariamente legato alla morte. Il termine lutto letteralmente significa motivo di angoscioso tormento. Ogni tipo di separazione e perdita determina un lutto. Non solo quelle connesse alla morte. A volte, in quanto adulti, siamo preoccupati dell’idea di dover spiegare la morte. Non è questo quello che ci viene chiesto: la morte è e resterà sempre qualcosa di insondabile, di indefinitamente silezioso e inarrivabile. Isabel Allende, nel raccontare la morte della figlia Paula, utilizza un’immagine bellissima quando sostiene che la vita è un attimo di assordante rumore fra due insondabili silenzi, quello che precede la nascita e quello che sopraggiunge con la morte. Non è possibile silenziare la vita e non è possibile silenziare il dolore. Essi vanno accolti e accompagnati in tutte le fasi che li costituiscono. La scuola ha il preciso compito di affrontare con i bambini, con le famiglie, non solo, con gli stessi colleghi, i temi della morte e del dolore attraverso la quotidiana disponibilità ad aprire un dialogo su tali tematiche. La cultura italiana, soprattutto in ambito scolastico, è poco improntata all’impiego dell’esperienza dialogica autentica. Siamo portati a pensare che, quando siamo a scuola, vi è qualcuno deputato a formulare le domande, i bambini, e qualcun altro, le insegnanti, a sapere o a trovare tutte le risposte. L’approccio dialogico parte invece dal presupposto che le risposte siano qualcosa in fieri, che si possono costruire nel tempo, dimensione fondamentale, a partire dalle idee e dai pensieri che tutti i partecipanti al dialogo, compresi i bambini, possiedono rispetto ad un determinato tema. Non è possibile al contempo pensare che l’apertura al dialogo sul dolore e sul lutto possa essere fatta una volta per sempre. Esso deve proiettarsi nel futuro ed arricchirsi, in maniera introspettiva prima ed interattiva poi, delle esperienze e dei sentimenti che appartengono a tutta la comunità scolastica. In questo senso può costituire per adulti e bambini un’opportunità altamente formativa. La morte di un alunno, di qualcuno dei familiari di quell’alunno, di un insegnante o di un collaboratore scolastico rappresentano un lutto non solo per i bambini, ma per la comunità intera. Gli adulti di quella comunità, insegnanti, collaboratori e genitori, devono essere i primi a riconoscere l’opportunità ed il bisogno di parlare del dolore che li ha segnati. Perché solo se si è disposti ad attraversare il proprio dolore si può trasmettere ai bambini la consapevolezza che esso non è qualcosa da cui fuggire sempre e comunque, ma è qualcosa in cui, a volte, è importante sostare. Per trovare le parole per esprimerlo, per raccogliere le idee, per esternare i dubbi che appartengono a tutti gli esseri umani. E nell’esperienza autentica di ascoltare i bambini, proprio quando si crede che, da bravi adulti, dobbiamo trovare una risposta a tutti i costi, ci possiamo sorprendere nell’accorgerci che la risposta giusta in realtà arriva proprio da loro. Al primo colloquio alla scuola dell’infanzia che frequenta mio figlio, la maestra ha chiesto a me e a mio marito, un po’ stupita, chi fossero il nonno Alessio e la nonna Vittoria, dei quali Edoardo parla spesso, ma che mai una volta erano andati a prenderlo. Abbiamo spiegato all’insegnante che quei nonni, i bisnonni, a dire la verità, di Edoardo, non sarebbero mai andati a ritirarlo: nonno Alessio è morto dodici giorni dopo la nascita di mio figlio, seguito a distanza di due giorni da nonna Vittoria. La maestra, un po’ imbarazzata, ci ha chiesto se Edoardo lo sapesse. Certo che lo sa. Lo sa perché, nonostante avesse solo pochi giorni, solo il suo sguardo d’amore mi ha preservata da un dolore che, in un altro momento della mia vita, sarebbe stato molto difficile da gestire. Perciò, il giorno in cui è venuto con noi al cimitero per lasciare un fiore e un bacio sulle loro tombe, è stato l’atto finale di un percorso che abbiamo affrontato insieme, non solo per raccontare a Edoardo che esiste la morte, ma per spiegare a Edoardo che esiste la vita e che l’amore che la rende piena può rendere più dolce anche il distacco da coloro che amiamo, nella certezza che il loro ricordo ci accompagnerà per sempre. Se non avessimo avuto i nostri nonni, il loro amore, molto probabilmente non ci saremmo stati noi e nemmeno il nostro bambino. Perciò, quando ricordiamo insieme a lui chi non c’è più, lo facciamo per quel profondo rispetto che abbiamo per la vita umana in tutte le sue dimensioni.