Indagare l’ambito degli attachments, che a differenti livelli di esplicitazione o di consapevolezza vanno a dare forma alla trama degli impegni individuali nell’ambito dei comportamenti “ecologici” o “sostenibili”, è occasione di un lavoro critico di per sé molto interessante e stratificato, necessario per evitare di incorrere nella trappola dell’indottrinamento, della ripetizione acritica di informazioni “ufficiali” e dell’imposizione di standard di comportamento o di lettura del mondo. Gli attaccamenti di cui abbiamo parlato fino ad ora, con le esemplificazioni portate con l’articolo precedente, sono riconducibili alla sfera delle metodologie con cui si mettono in atto programmi di transizione ecologica in ambito didattico — a questi, per riassumere, appartengono gli interessi degli allievi, degli insegnanti, degli enti e delle associazioni portavoce di gesti di cambiamento ecosostenibile, di scienziati ed esperti di ogni ambito di studio degli equilibri e delle trasformazioni fisiche del pianeta, di giornalisti, scrittori, attivisti e ogni altro attore che contribuisce alla causa di rendere l’educazione un luogo e un tempo per dare vita a generazioni di sensibili, attenti e competenti cittadini del mondo e del pianeta. Se scaviamo più in profondità, però, raccogliendo e seguendo il filo di Arianna di questi attachments possiamo giungere a due ulteriori tipologie di attaccamento, che esplicano altrettanti matters off concern ancora più profondi, che hanno a che fare con dei bias fondamentali che informano all’origine ogni approccio all’educazione sostenibile, influenzandone le finalità e ostacolandone i risultati. In primo luogo, che si tratti di approccio fact based, normativo o pluralistico, è bene ricordare che i programmi di educazione alla sostenibilità sono calati in un preciso contesto politico che spesso si fa promotore di tali programmi. Tale contesto, come ogni altro ente esistente, pone al centro dei suoi interessi e delle sue finalità la propria conservazione, motivo per cui non possono essere ignorate spinte latenti derivate dall’attaccamento a un certo sistema economico incentrato sul mantenimento di un trend di crescita, di benessere, di ricchezza e di consumo. Di qui si potrebbe inferire che il focus sulla conservazione delle risorse, sull’allargamento dei modelli di sviluppo sostenibile occidentale ai paesi più vulnerabili a problematiche socio-politico-ambientali, così come la fiducia totale nel progresso tecnologico e scientifico, siano il prodotto di un desiderio di preservare certi comportamenti a dispetto dell’imperativo impellente a essere attori di un vero cambiamento. Abbiamo parlato di un paradosso in cui incappa l’educazione nei programmi alla sostenibilità — quello tra voler promuovere alcuni comportamenti e il divieto di contraddire la democraticità dell’educazione —, abbiamo visto l’impasse in cui fa sprofondare la mancanza di dialogo tra matters of fact e matters of value; qui proseguiamo con la difficile conciliabilità tra la protezione dell’ambiente per l’ambiente e la protezione dell’ambiente intesa in senso strumentale al perseverare sulla strada del modello di sviluppo politico-economico di stampo occidentale. Questa ulteriore, radicale, difficoltà ci offre lo spunto per giungere al secondo degli attachments per così dire “profondi”. Questa mancanza di attribuzione di un valore autonomo e assoluto alla dimensione ecologica, che sappiamo produrre un senso ecologico solo superficiale perché non autenticamente eco-centrato, rispecchia l’incapacità di porsi in un contesto di interpretazione diverso da quello antropocentrico imperante. Veniamo da una storia di pensiero fortemente intrisa di assunti che pongono in posizione di rilievo la specie umana al di sopra di tutte le altre e della materia inerte della natura; siamo figli di una tradizione che interpreta il mondo secondo gerarchie di valore al cui vertice e centro è sempre posto l’uomo (per molto tempo, e troppo spesso ancora oggi, l’uomo maschio), collocato a una distanza incolmabile dalla natura. La natura antropogenica della palese accelerazione dei cambiamenti climatici in atto ha dato l’input a rivedere la nostra connessione con la natura, ma questo invito fatica ancora a concretizzarsi in un autentico decentramento dall’umano per riconoscersi parte eguale per diritto all’esistenza e compartecipe di un destino comune. Persino l’approccio pluralistico, che abbiamo visto portare l’accento sulla sfera sociale nella molteplicità dei punti di vista di soggetti, gruppi, società alle prese con il difficile adattamento alla sfida dei cambiamenti climatici, manca di superare quel confine che riconosce uguale importanza al punto di vista autonomo e agli interessi particolari di ogni organismo ed equilibrio il cui destino è intrecciato al nostro nella veramente plurale rete della biosfera. Questa duplice miopia, che pone al centro gli interessi umani e non si estende a quelli dell’Altro dalla propria specie, ignora come la considerazione del valore intrinseco della globalità degli individui abbia la capacità di contenere risultati più a lungo termine, proiettando i propri effetti anche sulle generazioni a venire — diversamente da quella focalizzata sul qui ed ora delle circostanze squisitamente umane.
Lorenzo Cervi