La commistione delle tre modalità fin qui elencate – fact-based, normativa, pluralistica – nei percorsi di educazione ambientale e alla sostenibilità rispecchia una criticità ancora più profonda, che riguarda da vicino l’essenza dell’educazione e ha a che fare con l’obiettivo ultimo dell’esistenza stessa dell’insegnamento del vivere ecologicamente. La domanda che risuona e viene echeggiata da ogni programma e iniziativa didattica, infatti, è la seguente: quale deve essere l’obiettivo dell’educazione alla sostenibilità? Come conciliare gli scopi di tale educazione con la salvaguardia della democraticità del processo di trasformazione ecologica? 

Da diverse ricerche, ormai disseminate lungo un ventennio di studi sull’argomento, emerge come i diversi approcci incarnino diverse concezioni dell’educazione stessa. Come afferma Arjen Wals nell’articolo del 2011 Learning our way to sustainability, da un lato si considera il fine dell’educazione la modificazione dei comportamenti in una determinata direzione sulla base del sapere scientifico di fatti assodati dagli esperti dei diversi settori. La domanda, dunque, è: “Che tipo di comportamenti vogliamo promuovere negli studenti?”, ed è incarnata nell’ottica fact-based, in cui il ruolo del referente scientifico è di centrale importanza per creare quella traiettoria causale “sapere-azione”. Dall’altro lato, invece, si intende come fine dell’educazione alla sostenibilità la costruzione di sensibilità critiche e resilienti preparate a leggere le differenti necessità personali, sociali e ambientali nel processo stesso del loro trasformarsi. Questo assetto risponde alla domanda in chiave pluralistica: “Come possiamo creare le condizioni ottimali per supportare i meccanismi che permettono agli allievi di crescere nel cambiamento?”; e si traduce nell’incentivazione del dibattito, dell’argomentazione, dell’assunzione di differenti punti di vista. Aggiungiamo – a queste due – una terza via di interpretazione dello sforzo educativo, in realtà sottesa a entrambi gli approcci, che ha a che fare con la dimensione normativa,che si basa su una matrice non scientifica ma strettamente etica e risponde alla domanda: “Che tipo di valori vogliamo che gli studenti portino in azione nel mondo di oggi e di domani?”.

Queste tre diverse finalità, quasi sempre compresenti nei programmi di educazione alla sostenibilità, incarnano un paradosso fondamentale tra l’urgenza pressante da ogni direzione di una trasformazione in senso ecologico e la necessaria resistenza dell’educazione al divenire strumento per predeterminare modi di pensare e di agire. Se infatti la commistione delle tre modalità – fact-based, normativa e pluralistica – tende a sfumare i contorni delle assunzioni su cui ciascuna si fonda, queste sono tuttavia presenti e condizionano in diversi modi le modalità e i risultati delle iniziative proposte. 

Nel caso dell’approccio fact-based, l’assunzione di stampo comportamentista di una linearità diretta tra conoscenza e azione (per cui si ritiene che basti offrire agli studenti degli strumenti scientifici per produrre i cambiamenti desiderati nei comportamenti) potrebbe portare i risultati più ottimali, più diffusi e più rapidi. Potrebbe, si intende, se fosse vero l’assunto che i comportamenti umani sono perfettamente lineari, o se il sapere scientifico fosse realmente qualcosa di valido e applicabile universalmente e una volta per tutte. Anche supponendo un’irrevocabilità dell’opinione dell’esperto su cosa sia non negoziabile per il bene della terra, il prezzo in termini di democraticità dell’educazione è pericolosamente alto, tanto che compare in alcuni scritti la dicitura “eco-totalitarismo”. 

Nel caso dell’approccio pluralistico, invece, l’accento è tutto posto sulla felicità individuale diffusa a quanti più individui e a quante più diverse realtà possono e potranno profilarsi nello scenario mondiale, che si ammette mantenere una buona dose di imprevedibilità, sia dal punto di vista degli sviluppi del pianeta sia da quello dei comportamenti umani. In questo contesto estremamente democratico, la possibilità di ottenere risultati si fa molto più sottile e molto più remota rispetto alle urgenze portate in campo dalle evidenze scientifiche – tali risultati potranno dimostrare la loro adeguatezza o meno sul lungo periodo, nel trasformarsi graduale delle società per azione di ogni singolo nel rispetto di ciascun altro. Questo modello, infine, suppone che il tempo a disposizione sia molto e che qualsiasi risultato sia sempre meglio di nessun risultato, producendo una semi-immobilità dovuta al non volersi sbilanciare in una direzione o nell’altra. 

Non da ultimo, abbiamo l’impianto etico-normativo che sottende entrambi questi approcci e di volta in volta dà forma a cosa “è giusto” e cosa “è sbagliato”, seguendo le differenti narrative con una forte connotazione morale intrisa di istanze scientifiche e sociali. 

Ritornando alla nostra lettura latouriana della faccenda, vediamo come ogni declinazione dell’educazione alla sostenibilità può essere considerata una diversa illustrazione del continuo processo di costruzione, composizione e inquadramento delle posizioni di matters of facts e matters of value, per cui il mantenere distinte (sebbene mescolate) le “mere cose” dai “soggetti agenti” porta a una interpretazione ingenua e superficiale di entrambi i poli e una scarsa efficacia nell’ottenere gli scopi desiderati.