I conflitti tra genitori non conviventi riguardano principalmente i rapporti con i figli minorenni. In queste controversie spesso accesissime entrano in gioco i diritti/doveri dei tre soggetti coinvolti: il figlio, la madre, il padre. Armonizzare le posizioni è compito del giudice: quale giudice, lo stabilisce l’art. 38 delle Disposizioni di attuazione del codice civile. In ogni caso egli dovrà attenersi ai criteri menzionati più oltre facendo esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole (art. 337 ter).

L’art. 38 delle Disp. Att. è una norma tormentata, oggetto di numerose riforme. Nella formulazione in vigore il tribunale per i minorenni è competente per i provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale: la decadenza (art. 330) ed anche la limitazione (art. 333), a meno che non sia in corso presso il t.o. giudizio di separazione o divorzio o procedimento ex art. 316 co. 2 e ss. In tal caso è al tribunale ordinario che spetta provvedere.

I diritti del figlio minore sono disciplinati dagli artt. 315 bis e 337 ter del c.c.. Egli ha diritto di crescere in famiglia, di essere ascoltato nelle questioni che lo riguardano, di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere da entrambi cura, educazione, istruzione e assistenza morale. Ciò vale a prescindere dal fatto che essi convivano oppure no. In caso di non convivenza o di cessazione della stessa, se i genitori non sono capaci di concordare una regolamentazione pacifica e rispettosa di quei diritti deve necessariamente intervenire il giudice determinando i tempi e i modi della presenza del figlio presso ciascun genitore.

La regola è l’affidamento condiviso: la responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi. Tuttavia, il giudice può disporre l’affidamento esclusivo a un solo genitore se l’affidamento condiviso sia contrario all’interesse del minore. In tal caso la responsabilità genitoriale si concentra sul solo genitore affidatario, ma l’altro ha diritto e dovere di vigilare sulla istruzione ed educazione del figlio. E’ fatto salvo il diritto del figlio di mantenere un rapporto col genitore non affidatario.

In casi di conflittualità particolarmente accesa, può essere necessario interrompere questo rapporto. Si parla allora di affidamento super esclusivo, denominazione creata nella prassi che non entusiasma ma ha il pregio della chiarezza.

Quel termine è stato accolto anche dalla Corte di cassazione, che ne fa largo uso nella recente ordinanza 17 maggio 2021 n. 13217, che ha cassato con rinvio un decreto della Corte di appello di Venezia la quale aveva disposto l’affido super esclusivo di una bambina in età scolare al padre, presso cui era stata collocata con affido esclusivo dal Tribunale di Treviso.

La motivazione dell’ordinanza della Cassazione merita alcune considerazioni. I giudici di legittimità, consapevoli di non poter entrare nel merito della controversia, hanno dovuto sudare non poco per rimanere nel loro ambito. Hanno infatti cassato con rinvio la sentenza impugnata perché fondata sulle conclusioni delle due c.t.u., dalle quali emergeva una sindrome da alienazione parentale o della madre malevola, con gravi ripercussioni ed effetti sulla bambina.

Per i giudici della Cassazione, la pronuncia della corte territoriale “appare essere espressione di una inammissibile valutazione di Taetertyp”, configurando a carico della madre una sorta di colpa d’autore. La colpa d’autore è un concetto appartenente alla dottrina penalistica, e consiste in un’attenzione tutta rivolta al modo di essere dell’agente, alla sua mentalità e di conseguenza ai motivi che lo hanno spinto a commettere un reato, tralasciando quasi completamente il fatto in sé considerato.

Averne fatto menzione ed uso in questa materia desta stupore. Malgrado i limiti del giudizio di legittimità, la vicenda processuale che traspare permette di cogliere alcune circostanze di fatto di particolare rilievo che certamente i giudici di merito hanno considerato e valutato. La bambina è frutto di una breve e già conflittuale relazione. Il padre non intendeva sottrarsi alle sue responsabilità e voleva riconoscerla. La madre fin dall’inizio ha cercato di escluderlo dalla vita della figlia, negando il consenso al riconoscimento paterno e rendendo così necessaria una pronuncia del giudice ai sensi dell’art. 250 co. 4 cod. civ. . Sullo sfondo familiare la nonna materna ha alimentato il conflitto, tanto che in primo grado il tribunale aveva dovuto vietare gli incontri con la nipote. La bambina veniva tenuta a casa da scuola con dei pretesti, violando il suo diritto all’istruzione. L’insistente richiesta di certificati medici fasulli aveva già allontanato due pediatri di famiglia.

Difficile dunque affermare che non risultava la veridicità dei fatti, e che la decisione di merito andava cassata. Il giudizio sulla capacità genitoriale non può che consistere in una valutazione complessiva del comportamento, a prescindere dalla classificazione scientifica a quello attribuita in sede di consulenza. Nel caso di specie, si trattava di comportamenti che il giudice minorile specializzato avrebbe certo qualificato come violazione dei doveri e abuso dei poteri inerenti ai compiti del genitore, con grave pregiudizio del figlio e conseguente pronuncia di decadenza ai sensi dell’art. 330 cod. civ. .

La pessima formulazione dell’art. 38 Disp. Att. impediva tale scelta al giudice ordinario, obbligato a muoversi nello schema degli artt. 333, 337 ter e quater cod. civ., senza che nessuno rilevasse che un fondamentale diritto del minore risultava violato: il diritto all’ascolto.

Luigi Fadiga