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Di Antonella Iammarino – 

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Il dato fa riflettere e non poco. Da un’ultima ricerca effettuata su 2.000 bambini in tutto il territorio nazionale si apprende che il 7% di loro dice di sentirsi solo. Ma cosa vogliono dire i bambini con questa parola? Che cosa è il senso di solitudine nei bambini? Ne parliamo con Elvira Battista, psicologa della casa famiglia Il Piccolo Principe di Limosano (CB) e responsabile del laboratorio creativo Aladino di Campobasso.

Dipende da quale tipo di solitudine intendiamo. Se parliamo dell’esigenza di avere compagnia dobbiamo dire che questo sentimento è variato molto nel tempo e oggi è al centro delle analisi più attente sull’utilizzo del tempo libero nei più piccoli. Per solitudine prima si intendeva mancanza di compagnia, dell’adulto prima e dei compagni dopo. In realtà gli stimoli durante la giornata erano pochi e i bambini erano costretti a costruirseli da soli, aguzzando l’ingegno e inventando strumenti e modalità. Era la stessa presenza dell’amico a far cadere il senso di solitudine e quindi di noia.

Dottoressa vuol dire che oggi non è più così. Cioè che non basta più la presenza di un’altra persona?

Non sempre purtroppo. I modi di trascorrere il tempo libero sono diversi e tendono a coprire ogni minuti dell’esistenza dei più piccoli, così come degli adolescenti. E il senso di vuoto fisico si sente di meno, ma il prezzo è notevole. Innanzitutto l’impegno continuo cui si tende oggi, quello che copre tutta la giornata, influenza negativamente la possibilità di comprendere se davvero i bambini si sentono soli, se davvero sentono il bisogno di dividere il tempo con altre persone. Inoltre poiché rivolgono costante attenzione ai numerosi input (il telefonino, la televisione, il pc, le persone, l’attività pomeridiana e tutto il resto) non hanno neanche gli spazi mentali minimi per fermarsi per riflettere, per capire e magari anche per provare sentimenti negativi come la solitudine.

Un sentimento, però, non sempre o non necessariamente negativo…

Infatti. E’ negativo se comporta noia nel bambino, ma è utile alla crescita se porta discernimento, è maturazione, è consapevolezza di sé ed anche scoperta del piacere di stare con se stessi, indispensabile per ogni persona.

La solitudine è un sentimento contrastante anche nell’animo degli adulti. Può capitare che, magari involontariamente, un genitore tenda a preservare il figlio dalla solitudine perché lui stesso ne ha paura?

Capita eccome. Capita spesso. Tante volte i genitori portano i figli in situazioni di compagnia contro la reale volontà dei bimbi. Innanzitutto fino ad una certa età i bambini degli altri non ne hanno proprio bisogno. E per altri intendo le persone estranee a quelle che lui ha di riferimento dalla nascita: genitori, nonni, baby sitter. Fino ad una certa età, che poi corrisponde a quella dell’inizio della scuola dell’infanzia, i bambini vogliono solo stare bene con le persone di cui si fidano. Punto. Ci sono poi casi in cui sono i genitori a proiettare le loro ansie su di loro: chi ha sofferto la solitudine si attrezza perché il figlio non la viva a sua volta; chi ha delle paure nel fare in modo che non le temano i figli gliele fanno venire, sono mille i modi per proiettare i nostri limiti sui bambini.

Quindi qual è, qualora esista, la via più corretta?

Non c’è in assoluto, ma basta pensare che il bambino è un’identità a se stante, che sviluppa sue preferenze, suoi gusti, che ha una sua personalità. Con questo approccio dovremmo riuscire a fare in modo che cresca senza subire input sbagliati dall’esterno.

E’ un principio che vale sempre? Anche quando siamo di fronte a casi in cui la solitudine arriva dal dolore di una perdita importante?

L’approccio parte sempre dal rispetto della persona, qualunque sia la sua età. Certo che naturalmente se parliamo di un bambino che ha perso un genitore o di uno accolto in comunità a causa di un clima familiare difficile il discorso cambia. L’approccio non solo è più delicato, ma richiede preparazione specifica e continuo aggiornamento. Per questo non mi stancherò mai di incoraggiare le persone che operano nel mondo dei minori a gettarsi in questo mestiere con una solida preparazione e a rimanere sempre al passo.

Qualche consiglio concreto?

Innanzitutto cercare di raggiungere una preparazione di base adatta e completa. Lavorare in una comunità per minori non è, e lo ripeterò fino alla nausea, non è lavorare in una ludoteca, sebbene anche la ludoteca richieda un minimo di preparazione sul piano psicopedagogico. Poi cercare scuole specializzate in questo settore: io indirizzo sempre al Master in Diritti dei Minori che l’Università di Ferrara ha organizzato ormai da tempo e che ogni anno propone nuovi tasselli di crescita nella professione. Lo consiglio perché è l’unico che ha raggiunto livelli elevatissimi nella guida delle persone che operano in comunità, perché è seguito dalla professoressa Bastianoni che nel settore è un punto di riferimento forte e perché essendo online può essere seguito da ogni dove e senza aggravio di costi dovuti al trasferimento.

Quest’anno è già partito o si fa in tempo per le iscrizioni?

Si fa ancora in tempo: le iscrizioni per l’anno accademico in corso scadono il 26 Marzo 2019. Basta contattare l’UNIFE al sito dedicato.

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