L3 terapeut3 sistemic3 si sono a lungo interrogat3 sull’uso delle diagnosi. In generale la consideriamo un marchio pericoloso, uno “stigma” (la parola greca per il tatuaggio imposto agli schiavi per indicarne la proprietà e ai delinquenti per indicarne la colpa). Certamente, la diagnosi, che interpreta unilateralmente la persona, “rivelando” la natura della sua sofferenza e del suo modo di essere, comunicando tale “rivelazione” tanto all’individuo quanto alle persone della sua vita, rischia di penetrare in modo permanente la sua identità, come un tatuaggio la pelle. E tuttavia, dalla notte dei tempi, il tatuaggio non è stato solo stigma degradante, ma altresì marchio protettivo, talismano e preghiera terapeutica. Altrettanto ambivalente è il potere della diagnosi, parola magica che controlla le idee sul proprio destino: se nell’uso che ne fa una certa tradizione cognitivo-comportamentale essa infonde la possibilità di controllare il proprio funzionamento e non esserne controllat3, per noi sistemic3 ha sempre avuto il suono più minaccioso della profezia che si autoavvera. La differenza sta tra una concezione della realtà psichica come qualcosa che può essere oggettivato e “rivelato” una volta per tutte o invece come qualcosa di vivo che reagisce alla stessa conoscenza che su di esso viene esercitata, divenendo nella relazione. In un caso con la diagnosi l’individuo acquisisce una nozione su di sé, nell’altro, una spiegazione (non “vera”, ma verosimile) che ha l’effetto potenziale di cristallizzare l’organizzazione dei significati e delle relazioni tutto intorno alla persona, portandola a credersi, conformarsi e adeguarsi ad essa, perdendo ogni altra possibile prospettiva su di sé, generando cronicità. Un’identità stigmatizzata, nel senso di marchiata dalla descrizione diagnostica. Personalmente non scarto né l’una né l’altra idea di diagnosi: talvolta utile per capire una “sostanza” individuale che impone i suoi vincoli alle possibili scelte, e tuttavia da non usare mai con leggerezza, coscienti del peso della nominazione.
D’altra parte, è la tendenza delle vite individuali ad organizzare i propri desideri e le proprie speranze, inquietudini e paure intorno a significati sovraordinati, che fa dei segni (che siano stigmi, vessilli o talismani) degli attrattori delle esperienze che dominano e delimitano le possibilità dei soggetti di capirsi, pensarsi e viversi. È il “potere diffuso” di Foucault, non una prerogativa del rapporto tra terapeut3 e pazienti, ma che interroga l3 prim3 in quanto agenti di quel potere. Lo stesso che vediamo costantemente allorché nuove parole d’ordine, nuove mode, nuovi gesti, nuovi status symbol, sorgono ad interpretazione delle tendenze sociali (o supposte tali), e masse di persone rispondono riconoscendosi, sentendosi viste, indovinate, elettrizzate di scoprire qualcosa di sé che non conoscevano, che non c’era (ancora), grate di questa nuova dimensione offerta loro nell’esperienza di sé. È quella che Althusser chiamava “interpellazione del soggetto” esercitata dall’ideologia, ma è anche l’essenza della moda: qualcosa di molto più profondo e strutturante di un cambio d’abito. Un gigantesco scaffolding sociale messo in atto dalla creatività collettiva nei confronti dell3 singol3, uno specchio sociale che genera il sentimento di potersi affidare allo sguardo competente di chi ci conosce meglio di noi stessi e ci spiega: chi è l’umanità là fuori, e quindi cosa possiamo essere noi in quanto umani e chi siamo noi nel mondo e che forme ha ciò che possiamo desiderare. Che questa entità superiore sia la piazza del villaggio, il cortile della scuola, la televisione o internet.
E l3 adolescenti? L3 adolescenti, nell’ambivalenza dell’essersi a malapena e a fatica liberat3 dello scaffolding genitoriale, nella crisi identitaria della propria trasformazione, si offrono all’interpellazione sociale con bisogno e passione, soggetti in divenire sono più di tutt3 affamat3 dell’abbraccio confortante dell’ideologia, che l3 istruisca su come essere se stess3, proiettandol3 nel futuro, indipendenti e sovversiv3 rispetto al passato, totalmente nuov3, eppure sicur3 della propria verità. E questo avviene naturalmente, attraverso l’identificazione con gruppi significativi e attraverso lo sviluppo di identità sociali: il riconoscimento di sé come parte di una situazione esistenziale condivisa (una categorizzazione di sé) a cui corrisponde una particolare visione del mondo (un’ideologia). Se dunque le ideologie sono sistemi di credenze generati dai gruppi sociali nella propria interpretazione della realtà, essi diventano anche manifesti sulla cui base le persone valutano la possibilità della propria appartenenza a quel gruppo. Ci deve essere un match: un gruppo deve produrre un’ideologia capace davvero di far sentire l3 giovan3 riconosciut3. E questo può essere difficile quando la paura e la frammentazione interiore prendono il sopravvento, e quando la frammentazione sociale non permette a nessun gruppo di generare un’ideologia convincente, sufficientemente strutturata, che non venga contraddetta dalle sue stesse immediate evoluzioni…
Nella loro ricerca (esasperata da questa frammentazione contemporanea) di segni che li identifichino, come una pergola intorno alla quale fare rampicare la propria identità, l3 adolescenti di oggi sembrano trovarsi alla congiuntura tra due diverse interpellazioni, entrambe estreme. Da un lato l’intersezionalità: la necessità di moltiplicare le categorie in senso comprensivo di tutte le sfumature del loro essere, garantendo loro un’identità che l3 descriva integralmente; dall’altro l’essenzialismo la tendenza a interpretare la categorizzazione in senso ontologico, garantendo loro un’identità che l3 descriva per ciò che sono davvero. Così nel provare nuove definizioni di sé, sembrano spesso alla ricerca di un nome (o una serie di nomi) da tatuarsi sulla fronte per dire a tutt3 chi sono, proteggendosi dall’oblio e dall’invisibilità, celebrando la propria unicità. E tuttavia il potere ambiguo dei vessilli identitari vale tanto di più quando parlano di unicità, con la tendenza a trascinare via l’individuo dall’appartenenza al gruppo (umano, comunitario, familiare, minoritario…) per elevarlo sul piedistallo dell’eccezionalità, dove però la solitudine è massima. Ciò che fa la differenza è la (im)possibilità di credere all’inclusività sociale e alla benevolenza dello sguardo dell’altrə, alla sua capacità di vederci, capirci, amarci malgrado la differenza. Quando il contesto o la biografia non permettono questo, il marchio dell’identità diventa lo stigma dell’esclusione.
Quando le ideologie e le appartenenze non tengono e le identità diventano solitudini, acquisisce forza l’interpellazione psicopatologica, prodotta non dal gruppo ma dall’autorità scientifica che studia l’abnorme. A cavallo tra scoperta scientifica e moda, ecco le nuove diagnosi che hanno sempre segnato i tornanti sociali: l’isteria, l’anoressia, la personalità borderline, la neurodivergenza… Interpretazioni delle ultime tendenze in fatto di sofferenza: allo stesso tempo descrizioni rigorose della realtà e nuovi segni capaci di catalizzare un processo plastico di plasmazione del dolore di intere generazioni, che vi trovano non solo un senso ma anche una forma per esprimere le inquietudini del proprio tempo.
In questi casi la diagnosi rischia di essere una backdoor della solitudine verso un’identità paradossale, un segno che porta significato in un buio da cui non si riesce più ad uscire. Come scriveva un saggio writer urbano: se non riesci ad uscire dal tunnel, arredalo.
Federico Ferrari, psicologo psicoterapeuta, terapeuta di coppia e familiare