Chiudo e riapro il libro per l’ennesima volta. Non mi serve a nulla studiare le regole. È già da molto tempo che comprendo i numeri e le formule senza bisogno di studiarle. La mia mente giunge al risultato senza farmi vedere il processo. È difficile da spiegare. Quelle cifre girano e rigirano nella mia mente finché non vanno a posto, come le tessere di un puzzle. Ma non riesco a spiegare quale sia il percorso che hanno fatto. E quando vedo la formula spiegata sul libro, capisco chiaramente dove vuole arrivare, senza bisogno che mi venga spiegato. Perché quella serie di numeri e lettere narra perfettamente ciò che avviene nella mia mente. Proprio come lo spartito spiega la melodia che chiunque può udire.

Geniale, qualcuno potrebbe dire. E invece no. Non vado poi così bene a scuola. Perché la scuola non è fatta per le persone come me. È fatta per le persone che imparano e capiscono così come gli insegnanti capiscono. Non c’è posto per coloro che, come me, sanno il risultato e basta. Se non sappiamo spiegare come ci siamo arrivati, allora la nostra fatica è nulla. Nessuno capisce che ancora più grande è per me la fatica di ragionare su come ho ragionato. O meglio, non ho ragionato.

Ed ora ho un bel dilemma. Entro qualche giorno dovrò scegliere la scuola superiore. I professori mi hanno consigliato un istituto professionale, perché dicono che me la cavo meglio con le mani che con i ragionamenti, o almeno credo fosse questo che volevano dire. Io, invece, da sempre sogno di andare al liceo. Scientifico. Scienze applicate. Voglio fare l’ingegnere, voglio costruire le macchine che vanno nello spazio. Praticamente fantascienza per i miei insegnanti. Invece per me sarebbe il massimo. Immagino quelle formule di fisica e di chimica. Le ho sbirciate nel libro di mio fratello, che fa la terza superiore. Io, senza farmi vedere, gli ho risolto cinque o sei esercizi. Ho messo solo il risultato, come faccio di solito. Il procedimento lo scriverà lui, che è più bravo di me. A lui il cervello non si impiglia.

E quindi, cosa farò? Forse li farò contenti, in fondo alla storia del liceo comincio a non crederci più nemmeno io.

Prendo un foglio e comincio a disegnare: numeri, formule pianeti. Sembra un disegno astratto, invece per me è chiaro come un ABC. Vedo oltre quei numeri. È come se avessero un’anima. Come se mi volessero raccontare una storia. Ma come si fa a spiegare tutto questo? Le parole non sono per me altrettanto chiare. A meno che non riguardino cose per me molto interessanti. Come le proprietà dei minerali e delle gemme. Ma di queste cose, a scuola, non interessa a nessuno. I libri sono pieni delle solite storie ormai già sentite milioni di volte. I graffiti. E chi se ne importa dei graffiti? Chi si è mai chiesto, invece, che cosa volesse davvero narrare una di quelle storie rupestri? Chissà chi era quello che li ha incisi. Che volto aveva, da dove veniva, che cosa provava? Mi perdo così, ogni volta, nel ciclo dei miei pensieri. E quando mi risveglio è troppo tardi. La professoressa ha già fatto l’ennesima domanda e si aspettava l’ennesima risposta preconfezionata. E io rispondo, come a solito, a modo mio.

Mi chiedo se esista un mondo per me, una scuola per me. Una scuola dove si possano coltivare non nozioni, ma passioni. Una scuola in cui anche il mio modo di studiare e di capire possa essere apprezzato. Dicono che sono intelligente, a modo mio. Ma che l’intelligenza non basta. Occorre metodo.

Io credo che occorrerebbe anche non essere diversi. Occorrerebbe essere tutti uguali, stare attenti tutti allo stesso modo, capire tutti allo stesso modo, risolvere gli esercizi tutti allo stesso modo. E il problema non esisterebbe più. Ormai è chiaro. Per sognare di essere chimici, astronauti, fisici non occorre più essere solo intelligenti. Occorre anche essere maschi.

Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia

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