Perché oggi, 17 maggio, la giornata contro l’omolesbobitransfobia?
Sono passati 34 anni da quello stesso giorno del 1990 in cui veniva espunta l’omosessualità dalla Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un punto di arrivo di un processo iniziato nel 1973 quando l’omosessualità era stata depennata invece dal Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-2) dell’American Psychiatric Association. È invece appena nel 2018 che l’OMS ha eliminato il transessualismo dalla sua lista delle malattie, creando nell’ICD-11 una sezione diversa, quella delle condizioni di salute sessuale, in cui inserire l’incongruenza di genere. Un modo per continuare a permettere una diagnosi medica ai fini del trattamento senza più patologizzare l’identità trans come condizione psichica. Una soluzione diversa da quella scelta già nel 2013 per il DSM-5, che aveva abbandonato la diagnosi di Disturbo dell’Identità di Genere, per abbracciare quella più circoscritta di Disforia di Genere, per dire che non è l’identità il disturbo, ma l’eventuale sofferenza che ne consegue, permettendo anche di riconoscere che non tutte le persone trans provano necessariamente disforia.
Un lungo percorso di depatologizzazione
Il percorso è quello di liberare la definizione di salute dall’idea di “normalità”: una malattia è qualcosa che pregiudica la salute, che genera danno al corpo o sofferenza alla psiche, e non qualcosa di “anormale”. Per troppo tempo la sofferenza provocata dal pregiudizio e dallo stigma alle persone “fuori dalla norma” è stato considerato come un segno di una loro condizione patologica. Oggi la scienza ha superato questo bias nel principio e sta gradualmente tirandone i fili rispetto alle sue implicazioni pratiche. Ma non è semplice perché gli effetti del pregiudizio possono essere straordinariamente radicati e intessuti nella rappresentazione della realtà e nella soggettivazione degli stessi individui identificati come malati.
Storicamente si consideri che, se l’omosessualità è sempre esistita, la soggettività omosessuale nasce solo nella seconda metà dell’Ottocento (dopo che Illuminismo e Romanticismo avevano maturato un pensiero sul diritto soggettivo alla felicità), con la ricerca da parte di alcuni intellettuali di una definizione scientifica di sé capace di sottrarre il discorso sull’omosessualità alla morale: Ulrichs propone il termine “uranismo” nel 1864 e Kertbeny inventa la parola “omosessualità” nel 1869. Il tentativo riesce, il concetto di omosessualità attecchisce, ma solo per essere immediatamente “scippato” dalla psichiatria (la più morale delle scienze mediche…) pronta a relegarla nuovamente nell’abominio sotto la forma della patologia: era appena il 1886 che il neurologo von Krafft-Ebing già la classificava come degenerazione congenita e animalesca nel suo Psychopathia sexualis. Le persone non eterosessuali e non cisgender da allora hanno avuto bisogno di circa un secolo per decostruire il discorso che le patologizzava, per cercare le proprie parole per emanciparsene, per intavolare con il sapere ufficiale un dialogo in cui quelle nuove parole potessero essere ascoltate. Più però si tratta di mettere in discussione un discorso reificato come quello sulla biologia e sul corpo, più questo processo richiede del tempo.
Il prossimo passo dovrà essere la depatologizzazione dell’intersessualità. Dagli anni ’90 l’emersione di una soggettività politica intersex ha portato ad una spinta crescente all’interno del mondo medico per distinguere gli aspetti di queste condizioni che richiedono effettivamente un intervento medico dal fatto che tali aspetti si manifestino in un corpo ambiguo rispetto alla categorizzazione sessuale. Nel 2006 c’è stato un Consensus Statement (Lee et al. 2006) dei pediatri americani per il coinvolgimento dellə bambinə nelle decisioni sul loro corpo, aprendo al principio che non sia ovvio che sia sempre preferibile la loro “normalizzazione”. E risulta sempre più comune che la sigla diagnostica DSD, venga estesa non più come Disturbi dello Sviluppo Sessuale, ma come Differenze dello Sviluppo Sessuale. La strada rimane però lunga.
Se la fiducia nella scienza vacilla
Nel giorno contro l’omolesbobitransfobia si commemora la depatologizzazione perché essa è stata fino ad oggi la base del contrasto al pregiudizio e alla violenza.
In un mondo Occidentale figlio dell’Illuminismo, che identifica nel discorso scientifico i parametri oggettivi di un’etica basata sui diritti e sulle libertà dei soggetti, la patologizzazione dell’anormalità rappresentava l’unica giustificazione possibile della violenza contro chi è diversə, come rifiuto di qualcosa di sbagliato, perché “oggettivamente patologico”. In questa cornice un discorso scientifico che dimostra la normalità della varianza e la varianza della fisiologia basta a cambiare il piano del discorso.
Oggi però è tutta quella cornice rassicurante di razionalità e fiducia nell’oggettività della scienza che sta vacillando. Se il postmodernismo aveva già drasticamente rimodulato le certezze del positivismo, mi sembra che il Covid-19 gli abbia dato la spallata definitiva. Durante la pandemia, se per qualcunə la scienza ha salvato l’umanità, per qualcun altrə le ha inflitto il più grave vulnus alla libertà da quasi un secolo, e questo ha nutrito a dismisura quei complottismi antiscientifici e terrapiattisti che da tempo erodevano la fiducia nel metodo come ricerca della verità.
Nello stesso tempo la geopolitica presenta il conto alla storia, e i regimi totalitari anti-occidentali sembrano trovare una linea comune, strumentalizzando la sacrosanta autocritica post-coloniale, per sostenere le proprie ideologie fascistoidi, propagandando l’idea che i diritti delle minoranze siano un vezzo ipocrita dell’oppressore occidentale che parla di esportare la sua democrazia, mentre non fa che imporre una logica di mercato senza anima né pietà.
Nel caos crescente, si scontrano voci sempre più confuse e discorsi sempre più contraddittori. E non mancano purtroppo coloro che non hanno nessun bisogno della patologizzazione per dire che il diverso è anormale e in quanto tale non dovrebbe esserci; che lo sforzo di fare spazio alle minoranze e garantirne i diritti è un danno per la maggioranza; che l’inclusività è uno spreco di risorse comuni. Voci che vengono candidate alle elezioni con l’auspicio di acchiappare la pancia della maggioranza. Voci che esprimono la normale tendenza delle società in cui aumenta la percezione dell’insicurezza a rivolgersi a pensieri fascisti.
Cosa significa oggi contrastare il pregiudizio e la violenza omolesbobitransfobica?
In questo contesto, contrastare il pregiudizio e la violenza verso le persone non eterosessuali e non cis-gender significa cercare un dialogo che contrasti il pregiudizio e la violenza in generale. Cercare nuovi codici di confronto, che accettino valori diversi, ma non siano relativisti di fronte al valore fondamentale del rispetto dei diritti e della tutela delle minoranze; che non siano passivi di fronte alla prepotenza, ma che non rinuncino a vedere l’altrə e il bisogno comune di credere in una possibilità di rispetto reciproco e di sicurezza.
Il rispetto dei diritti delle minoranze è la realizzazione di una promessa di giustizia e di uguaglianza che dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, alla Dichiarazione universale dei diritti umani, continua da più di 200 anni nel suo processo di realizzazione ancora largamente incompiuto. Ma soffre oggi di una crisi di sfiducia nei principi stessi di quella promessa legata alle complessità politiche ed economiche di questo tempo. Una crisi che riporta chi si sente più fragile, invece che a investire sulla propria appartenenza ad una minoranza per chiedere di rispettarne i diritti, al bisogno di ridefinirsi come maggioranza massimalista, popolo di piazza, “contro” questa o quella altra minoranza…
Contrastare il pregiudizio e la violenza omolesbobitransfobici oggi significa difendere lo stato sociale, difendere la solidarietà tra diversз (cioè tra tuttз), che si basa sulla fiducia di essere visti e riconosciuti nei propri bisogni. E significa anche difendere le condizioni di pace che permettono il mantenimento di quello stato di diritto che ha nella sua identità la realizzazione di quell’antica promessa.
Federico Ferrari, Psicologo Psicoterapeuta, Terapeuta di Coppia e Familiare