Sulla rassegna stampa del Corriere, Luca Angelini mette a confronto due voci autorevoli sulla generazione Z: lo psicologo sociale americano Jonathan Haidt e il quotidiano inglese the Economist.  Il primo lancia l’allarme sulla “Generazione ansiosa” (titolo del suo libro), fragilizzata dalle Big Tech e da un eccesso di cura nei suoi confronti, che socializza meno e fa meno sesso, si sente più sola ed è estremamente più esposta a depressione, ansia e suicidio. Al contrario il quotidiano economico sdrammatizza, considerando che in realtà si tratta di una generazione più ricca e benestante, che sta gradualmente prendendo le misure rispetto all’abuso di internet. Ma mentre nei paesi emergenti la generazione Z risulta più ottimista sul futuro grazie alla crescita economica e tecnologica, nei paesi più benestanti lo è meno. Aumenta la preoccupazione per il cambiamento climatico e il desiderio di una maggiore presenza statale e, cosa in effetti interessante, cambia nettamente la prospettiva rispetto al lavoro: questa generazione si autorizza un potere contrattuale molto maggiore, non essendo più disponibile a lavorare pur di lavorare. Due lati della stessa medaglia suppongo.

Il mondo cambia drammaticamente: guerre e clima stanno spostando gli equilibri planetari rendendo sempre più chiaro che il mondo come lo conosciamo non durerà. Questo non significa la fine del mondo, ma poiché, come il grande epistemologo von Foerster sottolineava, non siamo in grado di immaginare il nostro futuro se non attraverso l’esperienza del passato e del presente, la crisi ingenera un senso diffuso di apocalisse. Se l’orizzonte del futuro visibile è sempre più ravvicinato, da un lato aumenta l’ansia, dall’altro aumenta la propria indisponibilità a vivere un presente di sacrifici in cambio di promesse per il futuro. Sopportare oggi per fare carriera un domani perde di senso.

Di fronte alle ingiustizie sociali, però, sono pochi ad avere un piglio rivoluzionario, mi capita spesso invece di riscontrare un atteggiamento di giustificazione dello status quo, del tipo: “è vero che è ingiusto, ma non ci si può fare nulla e quindi...”. Non ritengono che sia giusto così, ma non credono che le cose possano cambiare. E c’è in loro una vena di tristezza nel dirlo e di incredulità di fronte al marziano che chiede loro “ma davvero?”. Li ascolto e mi chiedo se forse a questi diciottenni non manchi l’esperienza di aver visto cambiare le cose in meglio e dai loro genitori hanno sentito raccontare la delusione della speranza di una maggiore giustizia sociale. Hanno l’idea della legge della sopravvivenza. E questo toglie loro la tenacia per far cambiare davvero le cose.

E questo è forse tanto più evidente nelle classi sociali meno agiate, dove però rischia di sfociare in devianza e ricerca di soldi facili. I fenomeni di “branco” hanno la caratteristica di creare un piccolo mondo significativo in cui riconoscersi, con le sue regole “semplici” che riportano un senso di controllo sulla realtà e una fiducia nella possibilità di realizzare il proprio valore, laddove il mondo esterno sembra un cosmo gelido e incomprensibile che ci rende insignificanti. Purtroppo, però, laddove valgono le leggi del branco ogni ideologia di giustizia diviene velleitaria, e anche chi non desidera farne parte, finisce per giustificare amaramente lo status quo.

Più in generale vedo una sorta di circolo vizioso: se il futuro è angosciante, l’attenzione si sposta sul presente e investe su qualcosa di rassicurante nel presente, aumentando però così l’angoscia latente di un presente senza futuro.

D’altra parte, siamo nella cultura dei dispositivi di distrazione di massa, piccole scatole dove dissolvere ogni pensiero del dopo, dove convogliare tutte le proprie energie creative nella costruzione di pochi secondi di effimerità, “connettendosi” alla superficie delle cose senza penetrarle, scrollando le proprie relazioni per frammenti di secondo, preoccupandosi di offrire un’immagine di sé fuori dal tempo e dalla tridimensionalità… O nei casi più virtuosi, una espansione infinita nello spazio, una capacità di essere ovunque sul globo, senza poter agire, che amplifica il senso di impotenza. Mi dico che i disturbi impulsivi che sembrano dominare questi decenni (le personalità borderline, l’ADHD…) sono tanto metafore di una Weltanschauung, quanto il risultato di una relazionalità debole e priva di orizzonte. 

Ma questo lo vedo anche su di me. Scherzando con una collega sulla possibilità di riconoscersi nei sintomi dell’ADHD adulto ho constatato come in certi periodi non ne sia molto lontano io stesso: in termini di distraibilità, iperattività, iperfocalizzazione, difficoltà di organizzazione del quotidiano… durante il lockdown erano al massimo. E mi sono chiesto quanto la destrutturazione del contesto e degli impegni faciliti questo aspetto, e quanto lo faccia lo spleen depressivo di quei momenti senza un aggancio forte in un progetto di vita.

Nel mio caso la risorsa era creativa e mi rendo conto che un altro aspetto della fuga nel presente è il focus totale sulla performance. A volte è uno stato di grazia di totale identificazione con il flusso dell’azione, base del perfezionismo positivo, di assorbimento nel piacere di ciò che si fa nei suoi più piccoli dettagli. Altre volte è un’ansiogena identificazione del proprio valore nella riuscita della propria performance, idea di “valere solo quanto ciò che si fa” e di non potersi permettere di fallire, base del perfezionismo negativo, ossessivo e fragilizzante.

Purtroppo, nellə ragazzə che durante l’adolescenza indossano l’armatura della bravura è più spesso la seconda forma che riscontriamo. D’altra parte, il perfezionismo positivo richiede una grande solidità, un senso di sicurezza capace di comunicare al cervello che può permettersi di abbandonarsi al flusso. Mentre il contesto scolastico è valutativo e lo è anche la socialità adolescente, e il cervello è sempre all’erta in attesa del prossimo rischio di umiliazione. Il pericolo è di deutero-apprendere questa modalità, finendo per assumere una posizione di costante messa alla prova, in cui il proprio orizzonte di valore è la performance presente e sbagliare significa precipitare. Un soldatino perfetto, doverizzato, nevrotico e ubbidiente. Credo che, ancora una volta, anche in questo sia fondamentale la famiglia intesa come rete primitiva di sguardi validanti intorno al soggetto, capace di creare la sicurezza necessaria all’esperienza del flusso.

Se quest’epoca è un’epoca senza futuro (cioè senza rappresentazioni del futuro), e se l’adolescenza è in sé una fase di trasfigurazione, in cui lə giovane va in crisi proprio per la fisiologica impossibilità di rappresentarsi nel futuro, allora lə adolescenti zoomer si trovano a vivere una meta-adolescenza, una immanenza del presente al quadrato e il nostro compito, qualunque cosa voglia dire, è di riuscire a stare nel presente con loro per poter offrirgli fiducia nel domani, per quello che possiamo.

Per quanto tutto ciò sia ansiogeno innanzitutto per noi “vecchi”, credo anche che questo ripiegamento sul presente sia funzionale a questo frangente storico, che serva a questa generazione per attraversare il cambiamento e portarvi un diverso paradigma della responsabilità che, invece di una polarizzazione tra sacrificio per il futuro e godimento del presente, si traduca in una maggiore solidarietàcome unica garanzia di rispetto e cura della fragilità presente. Quello che allora noi vecchi boomer e xoomer dobbiamo imparare è la capacità di stare nel presente, in contatto con l’ansia e la sofferenza dell’altrə (e nostra), senza soluzioni facili e risposte costruite su vecchie rappresentazioni del passato, ma in una forma reale di contatto e di presenza con l’altro, in cui la sicurezza viene dal fatto che le cose si affrontano insieme.

Federico Ferrari, Psicologo Psicoterapeuta, Terapeuta di Coppia e Familiare