Paolo Ferrario, nel “Nuovo Dizionario di Servizio Sociale” definisce i servizi sociali “attività che hanno la funzione di rispondere a bisogni individuali attraverso la produzione di risorse e relazioni di aiuto sostenute dal sistema pubblico, l’attivazione di competenze professionali specifiche e la partecipazione attiva delle persona alla costruzione del benessere personale e di quello collettivo.” [1]
Nella costruzione della definizione, l’analisi dei due termini “servizi” e “sociali” parte dalla considerazione che “servizio” ha la sua radice dal latino “servus” essere a disposizione di qualcuno. Già il termine “servizio” richiama quindi una natura intrinsecamente relazionale, in quanto per essere tale necessita di essere rivolto “a qualcuno”. Ma questo rivolgersi a qualcuno, sia esso un singolo, una famiglia, un gruppo, una collettività, basta di per sé a garantire anche il carattere “sociale” di un servizio? Passando al secondo termine, Ferrario scrive “i servizi diventano “sociali” quando si dimostrano in grado di rispondere a domande di aiuto, secondo criteri di efficace valutazione dei bisogni e della compatibilità con le finanze pubbliche.”
In questo contributo l’intento è soffermarsi proprio sul carattere “sociale” dei servizi. Ota De Leonardis dedica una profonda riflessione al significato dell’aggettivo “sociale” in riferimento ai servizi[2], ricordandoci ancora una volta la necessità di esplicitare e discutere il significato attribuito alle parole, soprattutto a quelle entrate nell’uso comune e quindi tacitamente accettate. Proprio il loro utilizzo continuo, infatti, può contribuire a rendere meno visibili, il significato, i valori e le regole da cui esse discendono e a cui esse a loro volta rimandano. Significati, valori e regole che hanno inevitabilmente una ricaduta sulla realtà. Ed è per questo che non è così scontato chiedersi, cosa renda sociale un servizio e quando un servizio possa dirsi davvero sociale. Se il termine “servizio” implica il “rivolgersi a qualcuno”, la risposta alla nostra domanda è nel “come” il servizio si rivolge a questo qualcuno, portando all’attenzione la qualità delle interazioni sociali e quindi anche la qualità della partecipazione dei soggetti che ad esso si rivolgono. Un servizio è sociale anzitutto quando è in grado di generare relazioni, di promuovere socialità ovvero legami sociali positivi, fiducia, capacità. In altre parole quando è in grado di generare quegli elementi costitutivi del capitale sociale, patrimonio della collettività. La qualità del servizio dipenderà dalla qualità delle relazioni che sarà in grado di generare. Ecco che l’attenzione al “come” che Ota De Leonardis richiama, porta in primo piano l’attenzione ai processi più che alle sole prestazioni erogate[3]. E i processi, va da sé, si dispiegano nel tempo. I servizi per essere sociali devono necessariamente comprendere una dimensione “verticale”, una durata, devono prevedere nella loro organizzazione la possibilità di un agire professionale – sia esso relazione diretta con le persone, sia esso programmazione e progettazione – cui concedere un congruo orizzonte temporale. L’appiattimento sulla risposta immediata, standardizzata e prestazionale, il rifugiarsi in un repertorio rigido e prefigurato rischia di porre in ombra la relazione ed il tempo di cui essa ha bisogno per costruirsi. Inutili diventano allora i tanti percorsi, faticosamente ritagliati e conquistati, di costruzione condivisa di strumenti per la lettura del bisogno e la presa in carico delle persone se poi non si ha il tempo di svolgere quei colloqui nell’ambito dei quali questi strumenti dovrebbero essere utilizzati. Inutili i richiami al lavoro di équipe e alla costruzione di comunità di pratiche, quando non vi sono tempo e spazio per incontrarsi. La relazione, a differenza dei beni/prodotti, si fonda e si dispiega nel tempo. La costruzione di un progetto di aiuto con le persone dirette interessate necessita di tempo: tempo per accogliere, tempo per raccontarsi, tempo per sperimentare nuove soluzioni, a volte anche creative, tempo per risignificare le cose che accadono e per aprire lo sguardo verso nuove opportunità e nuovi inizi. Sappiamo che non è possibile parlare di cambiamento, autodeterminazione e scelta se la persona non ha a disposizione un ventaglio di opportunità e la capacità di coglierle. Lo stesso vale per i servizi sociali. Essi, per realizzare gli obiettivi di benessere definiti dalle politiche sociali, necessitano di essere sostenuti nella possibilità del loro essere sociali. Per questo è indispensabile aver cura dei servizi sociali, garantire loro le necessarie risorse professionali ed organizzative, a partire dalle dotazioni organiche minime e dalla supervisione entrambe previste dai LEPS (Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali). Perché “la qualità dei servizi sociali in quanto istituzioni o, viceversa il loro degrado, influisce direttamente sulla qualità – o il degrado – dell’habitat sociale in cui operano.” [4]
Angela Roselli
[1] Ferrario, P., voce “Servizi sociali” in Campanini, A. (2013), a cura di, Nuovo dizionario di servizio sociale, Roma: Carocci, pp.654-655
[2] De Leonardis, O. (2002), In un diverso welfare. Sogni e incubi, Milano: Feltrinelli, pp.121-133
[3] Per approfondire il tema della dimensione processuale dei servizi sociali si rimanda a Bifulco, L. (2003), cura di, Il genius loci del welfare. Strutture e processi della qualità sociale. Roma : Officina.
[4] De Leonardis, O., op cit., p.132.